Del: 4 Dicembre 2015 Di: Redazione Commenti: 0

In collaborazione con ASSP Unimi
di Luca Oberti

 

L’aridità è la polvere della nostra vita.
Pervade le nostre esistenze quotidianamente: in ogni gesto, in ogni sguardo, se ne sente l’odore, il muoversi  sinuoso tra le persone, nel tentativo strisciante di separarci. Atomismo dinamico e pervasivo, da corpo a corpo, parte per parte. Divide, rimescola, allontana, crea vuoti. Alterando i nostri equilibri induce a chiuderci, a trovare corazze sotto cui nascondere le proprie insicurezze, a sperimentare difese, a respingere  gli attacchi. Ciò che rimane è un guscio custode del proprio centro, proteso sul ventre ed eretto sul suo ego

I volti dell’aridità

Il surriscaldamento globale, l’erosione delle superfici coltivabili e l’espandersi di quelle desertiche, l’aumento delle temperature, dei disastri ambientali, dell’inquinamento in ogni sua forma, la scomparsa delle risorse idriche e le conseguenti crisi alimentari: il problema dell’aridità si sta facendo sempre più pressante, così come la ricerca delle soluzioni alle problematiche che porta con sé.

La presenza di Expo a Milano, il Festival dell’acqua tenutosi ad ottobre al Castello sforzesco e la mostra Acqua Shock al Palazzo della Ragione, terminata il primo di novembre, avvalorano la convinzione che non sia più possibile rimanere indifferenti a ciò che sta accadendo al nostro pianeta. Siamo al centro, come città e come individui, di una riflessione che vede l’uomo protagonista: il significato di ciò che sta accadendo è qualcosa che si lega profondamente al modo in cui viviamo, all’idea che abbiamo di sviluppo e civiltà. A trasformarsi, a cambiare, non è solo l’ambiente nel quale viviamo, bensì la società stessa nella quale siamo immersi.

Dalla geopolitica alla sociologia, dalle relazioni internazionali alle dinamiche di un conflitto, dalla tecnologia all’economia: in ognuno di questi ambiti, l’aridità pone quesiti che sembrano spingersi ben oltre il mero ragionamento scientifico o il calcolo politico, affondando decisamente nell’individuo e nella concezione che questo conserva della propria realtà.

È dunque possibile descrivere l’aridità come chiave di lettura per questo momento dell’uomo? È possibile che rappresenti uno stato, una condizione, oltre che una minaccia in grado di compromettere il nostro habitat, il concetto che abbiamo di progresso, oltre che l’esistenza stessa della nostra specie in futuro?

L’aridità nella storia

La concezione multiforme e sfaccettata di aridità come paradigma, come metafora della realtà che abbiamo intorno, si lega a doppio filo con il capitalismo nella sua forma più ultima: la cultura consumistica.

Il consumo è il metronomo dei nostri tempi, dei nostri ritmi, della nostra quotidianità e delle strutture portanti della nostra società; è il consumo a declinare la visione che abbiamo del mondo, il giudizio che abbiamo delle persone, il concetto stesso che abbiamo di felicità. La teoria utilitarista edonistica, ad esempio, partendo da una visione profondamente economica dell’uomo, dipinto come una “macchina” atta al raggiungimento della massima utilità, dimostra come questo abbia sostituito, alla nozione puramente astratta della felicità, un appagamento dei piaceri di stampo materialista; è innegabile, come, al giorno d’oggi, gran parte della cultura consumistica, dei presupposti ideologici della globalizzazione, prenda spunto da questa visione di soddisfazione individuale: l’incentivo al consumo, all’acquisto, il legame persistente tra potere e denaro, e tra questo ed il successo, la fama, sono imperativi codificati nella nostra etica, nelle regole che ci diamo all’interno del processo di socializzazione.

Il capitalismo, da cui il consumismo trae origine, presenta però radici ben più profonde di queste: non determina solo il sistema, la struttura nella quale viviamo, bensì il riflesso che queste hanno sull’individuo, sul suo microcosmo interiore.

Già Bucharin, nel solco del marxismo, descriveva come individualistica ed atomistica la componente borghese, portatrice delle istanze del primo capitalismo. L’isolamento sociale, la forte concorrenzialità, la chiusura emotiva erano rappresentate come componenti fondamentali del carattere e dello stile di vita della classe media emergente: un insieme di valori, ideali e caratteristiche capaci di proiettarsi e riflettersi nel modus vivendi di ogni singolo individuo. Era dunque possibile riscontrare, già nel marxismo di stampo ottocentesco, le tracce di un pensiero che voleva spingersi ben oltre i confini della teoria politica per approdare in una sfera più intima e privata.

Ed è proprio questo tentativo, quello cioè di descrivere noi stessi attraverso ciò che ci circonda, attraverso un punto di vista che possa dirsi sociologico o metaforico, il contenuto vero e proprio di questo articolo, nella convinzione che l’uomo appartenga fortemente al periodo storico nel quale vive e che faccia del cambiamento, di ciò che ha intorno, gran parte della propria essenza.

In un mondo come il nostro, avviluppato da dinamiche globali, consumistiche e diffuse, l’aridità sociale, emozionale e relazionale si può dimostrare un filo rosso capace di unire le difficoltà che l’uomo riscontra nel muoversi all’interno di un sistema sempre più complesso, multiforme, individualista e connesso.

L’uomo e liquidità secondo Baumann

Imprescindibile punto di partenza di questa ricerca, non può che essere Zygmunt Baumann, sociologo e filosofo polacco, nonché una delle voci più influenti all’interno del dibattito sulla società del nostro tempo: la potente metafora attorno a cui ha costruito il suo pensiero, “la liquidità”, non può che rappresentare il primo metro di paragone, di confronto e di scambio con “aridità”.

Baumann infatti parla di liquidità come di uno stato, fisico e mentale, con il quale descrivere l’evolvere, il procedere della nostra società, dell’insieme delle nostre relazioni. Tutto è liquido, inafferrabile, in costante movimento, senza forma o contorni, come sospeso in un mare di insicurezza nel quale la nostra esistenza è immersa, incapace di produrre isole o piattaforme di significato a cui aggrapparsi: i grandi valori del Novecento, l’etica del lavoro, del nucleo familiare, l’importanza attribuita a poche ma solide relazioni, la profondità emotiva, paiono perdersi, nella liquidità di un pensiero atomistico e profondamente individualista, quale quello capitalistico borghese.

Egli descrive dunque un processo in atto, quello di “liquefazione”, capace di estendersi in ogni ambito della nostra vita: dal lavoro alle proprie passioni, dalla comunità alle relazioni sociali, dall’ideale al materiale e culminante nell’individuo. L’uomo della società contemporanea, infatti, appare a Baumann come instabile, incerto, privo di punti di riferimento e, calato in un contesto così dinamico ed impulsivo, estremamente solo ed egocentrico.

“L’incontro stesso tra persone in luoghi pubblici”, afferma il sociologo polacco “è e rimane un incontro tra estranei: l’incontro di individui è un incontro tra persone che non si conoscono né si conosceranno poiché ambientato in un non-luogo o in un luogo atto al consumo”. “Pensiamo ad un aereoporto”, continua Baumann, “ un non-luogo, poiché luogo di passaggio e quindi un luogo privato del suo stesso senso; o ad un qualsiasi luogo che sorga o nasca per rispondere all’esigenza di un qualche consumo. In entrambi i casi l’individuo rimarrà confinato, poiché il consumo è un atto individuale”.

E questo solo per fare un esempio.

Lo scontro di Baumann con la realtà di oggi

La violenza, la forza semantica della metafora di Baumann è da togliere il fiato: in questo incerto sistema, nell’era del software e del virtuale, dove ogni certezza pare sgretolarsi nel domani, dove l’istante viene a contare più del tempo stesso, sopravvivere sfruttando al massimo ogni capacità o relazione a disposizione, diventa un imperativo: l’uomo, rinchiuso nel proprio sistema, seppur costantemente connesso con il mondo, con gli altri, seppur capace di coltivare sempre più rapporti, appare più solo ed insicuro.

Ed è proprio questo il punto di partenza che, in condivisione con il pensiero baumanniano, porta però ad un differente esito, ad una diversa metafora con la quale descrivere la società, il mondo nel quale siamo immersi: il pensiero strumentale, calcolatore e tecnico-scientifico, pervadendo e contagiando ogni ambito, ogni aspetto della nostra cultura, ha sovvertito valori e fondamenti etici, cambiando il nostro modo di vedere l’uomo, di valutarlo, di dare giudizi. È sempre più difficile riconoscersi nell’immagine che abbiamo di noi e che pare imprimersi nella società nella quale viviamo: le conquiste sociali e le grandi ideologie del Novecento e i progressi tecnici, scientifici e giuridici del nuovo millennio paiono inaridire di fronte alle problematiche di una crisi, quella che stiamo attraversando, capace di gettare ombre sulla nostra civiltà, o meglio, sull’idea stessa che abbiamo di ciò che siamo e abbiamo raggiunto.

L’uomo ha disumanizzato la sua società, subordinandola ad un sistema economico-sociale spregiudicato e divoratore: mai come ora le disuguaglianze paiono così forti, mai come ora, la ricchezza pare concentrarsi sempre più al vertice, mai come ora, paiono farsi violente ed irrazionali le spinte tese ad auto-conservare un meccanismo di potere logoro e malato.

L’aridità e siccità umana nel mondo

Ciò che stiamo costruendo non è, per tornare a Baumann, un mondo elastico, flessibile e permeabile, incentrato sul movimento e sulla ricombinazione, sulla rete e la diffusione, bensì il mondo della polvere, dell’aridità esistenziale, dell’attrito emotivo, della cecità emozionale, della chiusura egoistica. Un mondo profondamente fragile ed instabile, sia a livello individuale che collettivo: una società priva delle sue fondamenta, delle sue strutture, pronta a ricevere un cambiamento radicale e diffuso, ma, allo stesso tempo, insicura, introversa e conflittuale.

È paradossale come l’aridità paia descrivere in modo così calzante questo momento dell’uomo. Paradossale perché, in un’epoca come la nostra, scossa da un risveglio intellettuale dal sapore prepotentemente ambientalista, la siccità pare dimostrarsi una delle poche costanti, dei pochi punti fermi della nostra civiltà.

Ad essere arido non è più semplicemente l’ambiente naturale in cui viviamo, ad essere minacciata non è più la fertilità della nostra terra, ma della nostra cultura, delle nostre emozioni, dei nostri legami. L’aridità è il mondo della polvere nel quale siamo rinchiusi, dell’asprezza sociale, il pianeta dell’emozione svalutata, dell’utilitarismo degli affetti, della voracità materiale. Anni di iper-capitalismo, di cannibalismo economico e sociale, di movimenti migratori e conflitti interni, ci hanno condotto nell’era del frame, dell’individualismo atomistico borghese, dell’incertezza e delle paranoie di massa.

L’arida realtà dell’uomo: quale luce?

E ciò non può che ripercuotersi sull’individuo, su ognuno di noi.

Sotto l’inquinamento emozionale di un sole consumista, di fronte ad un deserto relazionale privo di oasi che garantiscano riparo dalla superficialità dei legami, ciò che diviene essenziale è la capacità di brillare, di riflettere i raggi, di emergere, staccarsi dalla massa, lasciandosi alle spalle l’ombra dell’anonimato. Splendere è l’imperativo della nostra epoca: distinguersi sapendosi conformare in un universo di soli in fuga, ambire alla perfezione, al modello, al sogno, al successo. Ma la luce della fama, della popolarità, altro non fa che riflettersi nel buio intorno a noi, facendoci dimenticare, per un attimo, della propria condizione: come falene attratte dal bagliore di una lampada, dalla sua luce tremula ma limpida, non concediamo di guardarci intorno, di valutare criticamente la realtà nella quale siamo immersi, ma ci lasciamo attrarre da una prospettiva irraggiungibile, intrisa della stessa sostanza del sogno, utopica, eccezionale e sempre lontana.

La costruzione sociale diventa la chiave per la propria ascesa, facendoci allontanare sempre più dall’idea, dalla concezione che abbiamo di noi stessi.

E ciò che si apre intorno a noi è il mondo della polvere.

All’alba del nuovo millennio l’universo sociale, politico, economico e relazionale che ci circonda appare dunque sempre più instabile, incerto, chiuso su sé stesso e spoglio delle ricchezze che hanno contraddistinto gran parte della Storia della nostra civiltà, garantendo in parte il nostro successo come specie e come uomini: la semplicità nei rapporti, la solidarietà, l’espressività emozionale, la libertà del sentire e del provare. Gran parte della nostra umanità, della nostra filantropia, pare offuscarsi, annebbiarsi, perdere di luce propria, in un mondo nel quale l’intervento mediatico – esteso in ogni spazio del nostro vivere – pare gettare ombre sul concetto che abbiamo di condivisione, sulla nostra interiorità, sull’idea che abbiamo di noi stessi, costringendoci in parte, nell’atto ultimo di difesa, alla finzione, alla spettacolarizzazione di noi stessi, all’uso strumentale della nostra immagine: le maschere pirandelliane trovano nuova forma, nuova forza nel mondo globalizzato.

Di fronte a ciò, mentre osserviamo la polvere coprire ogni superficie, qualcosa pare affiorare tra le dune di questo deserto: la spinta empatica ed espansiva del volontariato, mai come ora in crescita, dell’associazionismo, istituzione destinata a diffondersi e caratterizzata da un profondo anticapitalismo di base, e la diffusione di un nuova consapevolezza culturale ed artistica, capace di rafforzarsi attraverso le critiche, di avvilupparsi in fitte trame attraverso internet e le relazioni interpersonali, di attingere dalla diversità che ci circonda.

Una nuova forza, prepotentemente in contrasto con le dinamiche egemoniche in atto, intrinsecamente legata alla nuova “lost generation”, figlia delle contraddizioni del secolo appena conclusosi, sembra sempre più capace di conquistare nuovi spazi, sviluppandosi ai margini del palcoscenico globale, lontana dalle luci della cultura consumistica, riuscendo ad attrarre su di sé, i valori, le ideologie e le articolazioni di un pensiero capace di portare avanti istanze dal forte sapore antimaterialista, e ad annodarli, intrecciarli con un sentimento trasformista ed “oltre-generazionale”.

In un periodo di radicale ripensamento del nostro modo di vivere, pensare e concepire noi stessi, siamo portati, infine, davanti a ciò che rappresenta le ultime propaggini di un sistema che per secoli ha costituito il principio regolatore di ogni cosa: il capitalismo avanzato, o terzo capitalismo è il lungo strascico di un vestito pesante che ha saputo però accompagnarci per gran parte della storia moderna, ma che infine, rivela profondi squarci.

A noi dunque spetterà l’onore, l’onere ed il dovere, di assistere ad una profonda trasformazione, di condurla, di esserne guidati. Ciò che ci si prospetta è la l’ultima, estenuante radicalizzazione del processo capitalista: di qui in poi, o il mondo della polvere, o ciò che sapremo costruire sfruttando l’enorme potenziale che l’uomo porta dentro di sé.

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