
Fabio Ceravolo
Da qualche giorno regna il tumulto nel Dipartimento di Filosofia. Sette professori ordinari hanno espresso in toni aspri la richiesta di trasferimento al Dipartimento di Studi Storici. Le loro lettere, divulgate in prima battuta in consiglio amministrativo, si trovano tuttora pubblicamente affisse a mo’ di tesi luterane sulla bacheca del cortile Ghiacciaia. Altro luogo non potrebbe essere più appropriato, dal momento che fra le motivazioni addotte troviamo sentenze gelide che lamentano “la progressiva contaminazione della filosofia con materie che poco o nulla hanno a che fare con essa”, sanciscono che “nulla hanno da guadagnare, non la filosofia e ancor meno le scienze, da rispettive contaminazioni” e in tono d’allarme predicano come “il dipartimento [stia] perdendo la sua identità […] finendo per trasformarsi in un assemblaggio dove possono convivere […] linguisti, anglisti, psicologi, antropologi, sociologi, informatici”. Una matassa infuocata, che vale la pena dipanare.
Da una serie di colloqui informali sono venuto a conoscenza dell’assunzione, in tempi recenti, di personale proveniente da facoltà non filosofiche – scientifiche e non – con posizioni che spaziano da quella di ricercatore fino a quella di professore ordinario.
Per cominciare, la ragione che ha maggiormente preoccupato gli studenti e suscitato l’interesse mediatico è la seguente: se il trasferimento dovesse realmente avere luogo, il numero minimo di membri dello staff potrebbe venir meno, portando alla chiusura del dipartimento. È quantomeno triste, in un Paese che ha visto molti piccoli dipartimenti chiudere i battenti per ragioni economiche, che questa minaccia debba incombere su Milano per altre cause. A dirla tutta, sembra proprio uno spreco della nostra fortunata posizione. Vi è da dire, tuttavia, che le conseguenze sulla vita degli studenti non sarebbero molto gravi. Ci ha pensato Franco Trabattoni, ordinario di Filosofia antica e uno dei dissenzienti, a chiarire in una bella lettera aperta agli studenti che il provvedimento avrebbe solo valore istituzionale: “[L]’afferenza del docente a questo o a quel dipartimento non ha alcuna influenza sulla facoltà degli studenti di seguire corsi e sostenere esami”.
Qual è la fonte del dissenso, ed è questo un dissenso accettabile?
Tengo a precisare che la mia opinione è quelladi un ex-studente, oggi a stretto contatto con i corsi di dottorato inglesi di cui spesso si fa menzione quando si discute di “internazionalizzazione”. Inoltre, la mia ricerca si concentra sull’intersezione fra metafisica e filosofia della fisica. Quindi penso spesso al rapporto fra filosofia e scienze naturali e cercherò di fare luce sul ruolo giocato da questo dibattito, cercando di non cadere nel luogo comune per cui una filosofia scientificamente informata debba essere pura scienza. E sostenendo che alla formazione professionale di un filosofo e alle sue chance occupazionali non conviene che la sua formazione sia costituita interamente da pura scienza.
Estratto da una delle lettere appese
La ragione del dissenso riguarda direttamente l’istituzione dei nuovi insegnamenti, avvenuta in seguito alle sopracitate assunzioni. Di questo fatto vengono date due interpretazioni differenti:
- Le lamentele hanno a che vedere con gli interessi accademici dei dissenzienti. Nelle lettere si menziona spesso la disillusione, se non la rabbia, nel vedere il proprio insegnamento e la propria ricerca calpestati a favore di altri indirizzi disciplinari. Questa motivazione è comprensibile, ma insufficiente. Che il dipartimento incentivi settori disciplinari “redditizi”, anche a scapito di quelli tradizionali, è un processo naturale e ben voluto. Non vi è alcun dubbio che l’associazione fra filosofia e scienze cognitive, per esempio, sia sempre stata vincente nell’asset milanese e che, se incentivata, garantirà una risalita degli indici di qualità, un’offerta formativa credibile e persino, attraverso l’attrazione di nuovi fondi, nuova linfa da destinarsi alla ricerca tradizionale. In termini di assegnazione di risorse – numero di insegnamenti incluso – mi sembra più che corretto privilegiare le discipline di cui oggi la ricerca si nutre, purché esse siano genuinamente filosofiche.
- Secondo un’altra interpretazione del dissenso, l’obiettivo di accrescere gli standard del dipartimento è condivisibile, ma non è stato rispettato attraverso le nuove assunzioni. Per discutere questo punto, bisogna indagare il senso in cui i nuovi insegnamenti sono dichiarati “non-filosofici”.
Indubbiamente, è una domanda difficile. Da una parte vi è una complicata discussione contenutistica – sappiamo che la buona filosofia deve essere scientificamente informata, ma non sappiamo quanto essa debba ridursi al contenuto delle scienze – dall’altra vi è una discussione di tipo organizzativo: che cosa è richiesto perché un corso di laurea in filosofia raggiunga il suo obiettivo di formare filosofi “di professione”?
Il primo punto. Scegliete una scienza X, per esempio la fisica o la biologia. Vi è una distinzione disciplinare chiarissima fra X e “filosofia di X”. La funzione “filosofia di…” applicata a X non rende X. Spiegarne il perché non è così semplice, ma un buon argomento è ispirato da Aristotele e funziona più o meno così: Supponiamo che filosofia(X) = X. Questo è un fatto che richiede spiegazione. La spiegazione richiesta è di carattere filosofico. Dunque, vi almeno parte del contenuto di filosofia(X) che non coincide con il contenuto di X: ovvero la domanda su come sia possibile che filosofia(X) = X. Tramite reductio ad absurdum, deriviamo che filosofia(X) ≠ X.
L’argomento è ispirato da Aristotele in quanto egli notoriamente sostenne che dimostrare l’utilità della filosofia presupponga la filosofia.
È difficile valutare l’argomento in quanto è difficile valutare la premessa per cui la spiegazione richiesta per filosofia(X) = X è di carattere filosofico. Se X fosse la fisica, la spiegazione di ‘filosofia(fisica) = fisica’ sarebbe sì filosofica, ma coinvolgerebbe solo alcuni aspetti della filosofia e non tutta la filosofia. Per esempio, si discuterà della questione metodologica se le nozioni metafisiche tradizionali dovranno essere incluse nell’indagine fisica oppure no, ma non si discuterà delle vere e proprie domande metafisiche.
Quindi, se questa risposta fosse accettata, ne seguirebbe che tutto ciò che un filosofo dovrebbe insegnare ai propri studenti ammonta a questioni generali di metodo, questioni interessanti ma lontane dalle domande associate alle discipline filosofiche – per esempio la metafisica: “quali sono le proprietà delle sostanze”, “quali tipi di proprietà esistono”, e molte altre.
Questo argomento non è dunque accettabile da chi crede – come il sottoscritto ma anche i ben più valevoli filosofi della fisica David Albert e Tim Maudlin – che le domande metafisiche di prim’ordine siano essenziali all’esercizio della fisica teorica.
Considerando le pubblicazioni specialistiche, le letterature filosofica e scientifica sono di fatto indipendenti e affrontano problematiche a cui i loro autori sono reciprocamente non interessati, giusto o sbagliato che sia. In altre parole, c’è ancora più specializzazione di quanto si voglia riconoscere attraverso la distinzione blanda fra filosofia tradizionale e scienze particolari.
Raramente sentirete una filosofa discutere dei metodi per determinare il valore della costante cosmologica; le sentirete piuttosto dire che essa, semplicemente, dipende dal risultato di indagini empiriche. Raramente sentirete un fisico interessato alla domanda se la costante cosmologica sia una legge di natura nello stesso senso in cui lo sono la legge di Coulomb o le leggi newtoniane. L’importante è che funzioni, dirà. E cioè: l’importante è che la costante predica correttamente le osservazioni.
La differenza in termini di competitività dovrebbe essere chiara. La formazione professionale di un filosofo è accettabile solo se l’insieme delle sue capacità è sufficiente ad affrontare un contesto competitivo pre-esistente. Questo contesto è già occupato da autori che non parlano il linguaggio della filosofia tradizionale, né quello delle scienze particolari. Laddove vi siano mezzi da investire nella creazione di nuovi insegnamenti, è all’ingaggio di questi autori che bisognerebbe puntare, identificandone le qualità attraverso una valutazione titoli basata sul ranking delle riviste specializzate, come ormai è consuetudine. Sembrerebbe che negli ultimi anni si sia assistito a dei miglioramenti in questa direzione. L’ideale sarebbe però destinare ad essa tutte le energie disponibili.
La promozione dell’interdisciplinarità, il tanto discusso “rapporto” con le scienze, dovrebbe invece passare attraverso le modifiche dei curricula disciplinari, garantendo la possibilità di svolgere più esami (anche a livello di dottorato) nei dipartimenti di interesse, così da acquisire quella base di competenze su X necessaria allo studio della filosofia di X. Infatti, quello della dispersività dei curricula è un problema che da molto tempo affligge gli studenti, le cui energie vanno in gran parte dissipate nella preparazione di esami lontani dai loro interessi e dalle loro ambizioni di carriera. Perché non pensare di rendere più snello e meno “tuttologico” il percorso triennale, ponendo gli studenti di fronte a chiare scelte di specializzazione?
Concludo, attraverso un’interpretazione personale delle ragioni dei dissenzienti, che il risultato di una politica di “copia e incolla” di pezzi dei dipartimenti scientifici all’interno dei dipartimenti di filosofia è dannosa a livello di formazione professionale. Il punto su cui non posso concordare con i dissenzienti riguarda proprio la richiesta di trasferimento, che essi motivano solo attraverso la necessità di ridare dignità alla propria ricerca. Come indicato al punto (1), mi sembra che l’incentivo ad alcuni settori “ben visti” dalla comunità filosofica – purché questi siano conformi alla letteratura filosofica più accreditata – non possa che giovare agli standard del dipartimento e di conseguenza garantire nel lungo periodo più risorse anche alle discipline tradizionali.