“Sono arrivati e hanno distrutto la mia casa. La selva è il mio mercato, la mia farmacia, la mia mia spiritualità”.
A parlare è Humberto Piaguaje ‒ rappresentante secoya della Rete UDAPT ‒ in occasione dell’incontro “Diritti umani ed ecocidio in Amazzonia”, tenutosi in Università giovedì 10 dicembre (Giornata Mondiale dei Diritti Umani) .
Per ben 26 anni ‒ dal 1964 al 1992 ‒ la Texaco, una compagnia petrolifera nordamericana acquisita dalla Chevron Corporation nel 2001, ha estratto petrolio nell’Ecuador del Nord, riversando nella zona 63 milioni di litri di petrolio, disperdendo oltre 70 milioni di acque reflue tossiche nel terreno, nei fiumi, nelle lagune ed emettendo nell’aria 35 miliardi di metri cubi di gas combusto (Gas Flaring).
I danni causati dalla Exxon Valdez in Alaska e dalla BP in Messico hanno fatto meno danni all’ecosistema rispetto alla Texaco in Ecuador. Tuttavia, mentre nei primi due casi si è trattato di un incidente, nell’ultimo la compagnia petrolifera ha deliberatamente causato danni all’ambiente e alle popolazioni residenti (dei sei gruppi indigeni, due si sono estinti), scaricando le acque tossiche direttamente nei fiumi dell’Amazzonia e rifiutandosi di interrare i barili di scorie, lasciate a ricoprire strade e terreni.
“Per ogni barile d’acqua reflua non interrato Texaco risparmiava 3 dollari, mentre costruire una geomembrana di protezione avrebbe comportato una spesa di 4 milioni”, una cifra irrisoria per una compagnia petrolifera, che però “Texaco non è stata disposta a spendere”, spiega Pablo Fajardo, avvocato del processo Chevron/Texaco.
Eppure, quando la Texaco cominciava a trivellare in Ecuador esistevano già norme di protezione ambientale in materia di estrazione del petrolio e stoccaggio delle acque reflue, norme elaborate negli Stati Uniti da un team di esperti ‒ tra cui figuravano tecnici della stessa Texaco ‒ e seguite religiosamente. Un’ortodossia che però cessa di essere tale al di fuori degli USA.
“Questa impresa, agendo solo per il suo profitto economico, ha consapevolmente commesso un crimine ambientale. L’era feroce della Texaco ha causato danni alla natura, all’economia e alla salute delle 30.000 persone che vivevano nell’area di suo interesse. Di queste, già 2.000 sono morte di cancro ‒ vale a dire una persona su 15. E ancora non conosciamo fino a che punto si estenderà questa contaminazione”, continua Fajardo “perché acqua e aria non hanno confini”.
L’iter legale per i danni sofferti inizia nel 1993 a New York e culmina con la sentenza della Corte Provinciale d’Appello di Sucumbíos nel 2012, che condanna la compagnia a un risarcimento di 9.5 miliardi di dollari, cifra ancora oggi non riconosciuta dalla società, che ha respinto sia le decisioni dei tribunali dell’Ecuador sia dei tribunali internazionali. Quindi il caso è tuttora pendente.
Fajardo ci dice che, se e quando sarà ottenuto, il risarcimento verrà interamente impiegato per bonificare l’ambiente. “Stiamo progettando piani di ripristinazione da quattro anni, ma nessuno di noi sa veramente bene come riparare tutti questi danni. Non esistono esempi di riparazione integrale ed olistica come servirebbe in Amazzonia”.
“La difesa del territorio non interessa se non può esserci un guadagno dietro ma dobbiamo pensare e proteggere la vita della natura come quella degli esseri umani”, continua Piaguaje.
Purtoppo Texaco non solo continua a fuggire dalla sentenza che le è stata comminata, ma fa di tutto per minare la credibilità dell’Ecuador e il sostegno alla comunità amazzonica. Ha intrapreso quello che può essere definito un atto di corporate terrorism, facendo avviare dai 2000 avvocati della compagnia procedimenti legali contro gli avvocati e i rappresentanti delle popolazioni colpite.
Fajardo, Piaguaje e tutti quelli che rappresentano hanno combattuto per nove anni in America, per dodici in Ecuador e per altri tre anni nei tribunali internazionali, e ancora non hanno ottenuto giustizia. Che almeno abbiano la nostra attenzione.