C’è uno strano fascino nei confronti del terrorismo al femminile. E parlando di terrorismo al femminile, parliamo di quelle donne che, negli anni ’70 e ’80, hanno fondato e guidato movimenti di estrema sinistra, responsabili di innumerevoli attentati e sequestri. Due in particolar modo sono i nomi che rimangono noti: Ulrike Meinhof, membro attivo della RAF (Rote Armee Fraktion) e Fusako Shigenobu, fondatrice e leader dell’Armata Rossa Giapponese. Nonostante culture, nazionalità e storie di vita radicalmente diverse, è difficile non associarle, come è stato per esempio fatto dal documentario del 2010 Children of the Revolution, nel quale le figure delle due terroriste sono raccontate e analizzate dalle rispettive figlie.
Ulrike Meinhof, nata in Germania nel 1934, è una giornalista stimata, che si occupa, con un certo anticipo rispetto ai tempi, di gruppi marginali e di disagio sociale. È sposata a Klaus Röhl, fondatore della rivista dove lavora, Konkret, ed è madre di due gemelle. È nel 1968 che la sua vita inizia a prendere una piega preoccupante. Ulrike divorzia dal marito, si dimette dal giornale, troppo sottomesso alle leggi del mercato, e dopo averne occupata la sede, guida un gruppo di suoi sostenitori a devastare la casa che era stata sua e di Röhl, ormai definito con sprezzo “noto socialista da salotto”. Siamo in una Germania che è teatro di uno dei più violenti terrorismi di sinistra d’Europa. La RAF ha già iniziato a far esplodere le prime bombe per protesta contro la guerra del Vietnam. Ulrike Meinhof ottiene l’affidamento delle figlie e le porta a vivere a Berlino Est. Il 14 maggio 1970 partecipa, assieme ad altri attivisti, alla liberazione del leader della RAF Andreas Baader, arrestato nel 1968, e da quel momento in poi è latitante. Poco dopo rilascia la seguente affermazione, interpretata da molti come una dichiarazione di guerra nei confronti dello Stato tedesco: “Ovvio che diciamo che i poliziotti sono dei maiali. Un uomo in uniforme è un maiale, non è un essere umano, dobbiamo affrontarlo. Non dobbiamo parlargli. E ovvio che potrebbe capitare di sparare.”
Mentre Ulrike pianifica di mandare le figlie a vivere in un orfanotrofio in Palestina, cosa che verrà evitata dal pronto intervento di un amico di famiglia, la RAF organizza e porta a segno diversi attentati contro la polizia, l’esercito americano e l’editore Springer.
La storia di questa donna, prima giornalista intelligente e affascinante, poi inspiegabilmente spietata militante della rivoluzione, finisce nel più triste dei modi. Nel giugno 1972 Ulrike Meinhof e il resto della RAF vengono arrestati. Nel 1976 Ulrike viene trovata morta suicida nella sua cella e i suoi compagni, Baadar, Ensslin e Raspe, gridano al delitto di Stato. Si suicideranno anch’essi l’anno successivo.
Il suo cervello, a seguito dell’autopsia, fu trafugato da un neuropatologo, che studiandolo teorizzò l’incapacità di intendere e di volere della donna. Nel 1962, infatti, aveva subito un intervento al cervello per la rimozione di un tumore benigno, e pare che questo avesse danneggiato il suo emisfero destro, quello che si occupa di gestire le emozioni.
Tutt’altra storia quella di Fusako Shigenobu, nata nel 1945 a Tokyo e soprannominata “la regina del terrorismo” o anche “l’imperatrice”. Fusako viene cresciuta in una rigida famiglia della destra giapponese, ma frequentando l’università di Meiji, dove si laurea in Storia e Politica Economica, si avvicina ai movimenti studenteschi che protestano per l’aumento delle tasse universitarie e ne diventa presto leader. Per mantenersi lavora, intanto, in un topless bar.
Nel 1971 Fusako si trasferisce in Libano, dove fonda l’Armata Rossa Giapponese in supporto dei rifugiati palestinesi e se ne mette alla guida, con l’obiettivo di fomentare una rivoluzione socialista di portata globale. All’Armata Rossa Giapponese sono attribuiti, fra le tante cose, e non sempre con prove certe, l’attentato del 1972 all’aeroporto di Tel Aviv, durante il quale morirono 24 persone, l’occupazione dell’ambasciata francese all’Aia nel 1974, e il dirottamento nel 1977 di un aereo della Japanese Airlines costretto ad atterrare in Bangladesh (rilasciato dietro un riscatto di 6 milioni di dollari e la librazione di 6 membri del gruppo terroristico).
Nel luglio del 2000, dopo trent’anni di latitanza, Fusako Shigenobu ritorna in Giappone spacciandosi per un uomo, con un passaporto falso, ma pochi mesi dopo, a novembre viene arrestata ad Osaka e portata a Tokyo. Pare che, scendendo dal treno, tra lo stupore dei passanti nel vedere un’anziana signora di settant’anni in manette, avvistati i giornalisti abbia alzato le mani in segno di vittoria e gridato: “Continuerò a lottare!”. Fusako non si scoraggia nemmeno quando, nel 2006, viene condannata a 20 anni di carcere, e fa recitare ai suoi avvocati della difesa un haiku da lei stessa composto: “Il verdetto non è la fine. È solo l’inizio. La nostra forza di volontà continuerà a diffondersi”. Attualmente ricoverata per cancro, si dichiara una prigioniera politica e continua a negare che la sua armata abbia mai ucciso qualcuno, pur riconoscendo di aver causato molte sofferenze. Nel 2001 pone fine formalmente all’esperienza dell’Armata Rossa Giapponese: “Se fossi rilasciata, continuerei la lotta, ma lo farei con mezzi pacifici. La lotta armata era strettamente connessa alle circostanze storiche, e quel che è giusto in un certo luogo e tempo, potrebbe non esserlo in un altro momento”.
Personaggio controverso, Fusako, che da giovane si fa fotografare armi alla mano, esercita indubbiamente un certo fascino. Tra i vari omaggi che le sono stati fatti, il più curioso è senz’altro il profumo creato nel 2008 dall’artista Anicka Yi e dall’architetto Maggie Peng, chiamato in suo onore “Shigenobu Twilight”, il tramonto di Shigenobu.