Del: 19 Gennaio 2016 Di: Redazione Commenti: 0

Elena Cirla

Italo Calvino diceva che “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”: forse è per questo che sempre più frequentemente i registi di tutto il mondo decidono di trasporre, spesso in chiave personale, le opere più significative della letteratura mondiale.
Tra le altre, quest’anno è toccato al Macbeth shakespeariano, rivisitato dal regista e sceneggiatore australiano Justin Kurzel che, con un cast da Oscar (nonostante le mancate nomination) dirige una delle trasposizioni cinematografiche più potenti della storia della tragedia.
Kurzel si affida completamente al testo originale di Shakespeare, attraverso il quale gli attori sprigionano capacità espressive che, unite alla fotografia e ai costumi, contribuiscono ad esaltare un alone di mistero e insieme di verosimiglianza che spiazzano lo spettatore, lasciandolo con il fiato sospeso per tutta la proiezione.

Le riprese, avvenute fra Inghilterra e Scozia, mostrano tutta la magnificenza delle Highlands scozzesi: non è un caso, infatti, che la fotografia sia uno degli elementi che spiccano e che lo spettatore si senta parte del paesaggio, famoso per le sue lande sterminate e le catene montuose imponenti, che si staglia spesso sullo sfondo ma che, nella maggior parte dei casi, è il protagonista vero e proprio.

Nel complesso, dunque, nonostante vi siano delle discrepanze, l’opera si si presenta come un adattamento molto fedele all’originale, così come negli anni ’70 era stata quella del regista polacco Roman Polanski.

Questa precedente trasposizione, datata 1971, è entrata nella Storia per la forte presenza di scene macabre che, secondo la leggenda metropolitana, sarebbero dovute al brutale omicidio della moglie, Sharon Tate, ad opera dell’assassino seriale Charles Manson; il film era infatti il primo girato dopo l’uccisione della consorte.
La grande differenza con il Macbeth di Kurzel risiede nei luoghi delle riprese, che nel caso di Polanski sono il Galles e la Northumbria e, forse anche per questo motivo, la fotografia non risulta potente quanto la precedente.

Infine, altra grande trasposizione, e questa volta anche profonda rivisitazione, è quella di Akira Kurosawa e del suo “Trono di sangue”. Il regista giapponese, basandosi sullo scheletro dell’opera inglese, sviluppa una trama che si snoda nel Giappone medievale del XVI secolo, periodo d’oro di impertori e samurai.

Protagonista qui non è il nobile Macbeth, ma Taketoki Washizu, un nobile a cui, alla stregua dell’eroe (o antieroe) scozzese, viene predetta l’ascesa al potere da tre creature magiche.
Per quanto la pellicola si avvicini agli esempi occidentali, ha una grande particolarità: il regista utilizza ampiamente la tecnica del teatro nō, arte giapponese antichissima e molto radicata nella cultura nipponica,tant’è che anche le geishe ne sono maestre.
È forse per questa immensa discrepanza culturale che il film non ha riscosso grande successo nell’“emisfero occidentale” – pur essendo stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1957 – rimanendo una perla nascosta del cinema orientale.

Nonostante la grande distanza che intercorre fra le trasposizioni cinematografiche, elemento di comunanza è in tutti e tre i casi, così come nella tragedia shakespeariana, l’avverarsi della profezia, la cui durata, breve e volubile, ricalca perfettamente la vita umana: non è infatti la storia di un inevitabile destino, ma di un mero desiderio umano.
La potenza sprigionata dalla tragedia dimostra ancora una volta quanto, paradossalmente, i classici siano vicini al nostro mondo e quanto noi siamo vicini al loro, creando un ponte che permette un dialogo continuo fra passato e presente.

All hail, Macbeth.

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