Del: 12 Gennaio 2016 Di: Marta Clinco Commenti: 0

Solo dieci minuti di automobile separano la periferia della città situata nell’estremo nord francese, confine simbolo col Regno Unito dal campo profughi di Calais, ancora ignorato dalle mappe ma ben noto a tutti gli abitanti della zona. È infatti il terzo agglomerato più popoloso, con quasi 7000 persone accampate sulla gelida fanghiglia nei pressi del porto. Principalmente curdi, afghani, sudanesi, eritrei, kosovari, pachistani e siriani convivono nel campo da mesi, nelle stesse condizioni disumane.

L’ingresso del campo è piantonato giorno e notte dalla Gendarmerie, che controlla chi entra, chi esce, e perché. All’interno, una realtà parallela al mondo fuori, più umida e sporca.

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Ai lati degli stradoni principali a sassi e terra e fango che tagliano il campo, distese senza fine e senza ordine di tende da campeggio – alcune danneggiate, altre a brandelli, altre completamente distrutte sono ora un tutto con sassi, terra e fango. Al mattino, dalle porte aperte di alcune baracche iniziano a diffondersi fumi di cibi – uova, pane, legumi e verdure a volte, riso, e thè caldo. Tutti invitano ad entrare, a condividere un piatto di uova fritte, a scambiare due parole. Sorridono sinceri e curiosi. Negli shop si vende di tutto, ma le sigarette sono bene di lusso. Più avanti anche il barbiere, la chiesa e i canti, chi ripara biciclette per fare un giro in città. I passeggini non servono più e così ci si trasportano le taniche d’acqua non potabile dai punti di raccolta verso le zone più interne. Un tendone di pronto soccorso gestito da un’associazione britannica è stato arrangiato accanto alla chiesa, offre thè e caffè caldi a chi attende. C’è chi è impegnato in un gioco di carte, qualcuno invece gioca a calcio, altri siedono e guardano la gente passare. Fantasmi.

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“Siamo qui ma in realtà non esistiamo. Per nessuno. A volte finisce che ci credi davvero… perché questa non è vita” – racconta un ragazzo sudanese.

Il viso cotto dal sole confonde l’età. Ha 23 anni, ne dimostra 40, non parla volentieri di ciò che ha vissuto in Darfur, dell’orrore fuggito, del viaggio disperato proiettato sul sogno della vita migliore che non c’è. Ma non è necessario.

In alcune aree sono sorte i primi shelters, rifugi in assi di legno ricoperte e rinforzate con teloni di plastica cerata. Di volontari è pieno, soprattutto nei weekend: vengono principalmente da Regno Unito, Belgio, Germania e Olanda. Anche alcuni No Borders italiani – dopo l’estate a Ventimiglia, l’autunno parigino e gli sgomberi – si sono spostati lì. In genere portano cibo, vestiario, medicinali, giochi per i bambini che vivono nella zona dei prefabbricati, separata dal resto del campo, con le loro madri. Alcuni vengono per costruire le baracche, con gli attrezzi da lavoro. Jake ha 25 anni, viene da Cardiff, dove ha studiato arte e design. Nel campo non conosce nessuno: “Sono arrivato, ho preso il martello e ho iniziato a piantare chiodi. Poi ho conosciuto altri ragazzi volontari che avevano avuto la mia stessa idea. Questa gente ha bisogno di un rifugio per la notte, per dormire al caldo. Spero di finire prima che faccia buio – non me ne andrò finché non avrò finito, fanculo il buio”.

Tra ottobre e novembre erano scoppiati i primi incendi dolosi che si erano mangiati intere aree del campo. Prima quella eritrea, poi quella sudanese – due volte. “Cercano di riscaldarsi, accendono candele, accendono fuochi vicino alle tende, e il vento fa il resto. È terribile. Sanno che è pericoloso, ma la sofferenza e la disperazione per il gelo li spinge a farlo comunque. E se gli va bene passano la notte” – conclude Jake, in bilico su una delle assi.

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L’inverno gelido e le sempre più scarse condizioni igieniche hanno peggiorato molte delle patologie già diffuse nel campo nei mesi precedenti, oltre ad aggiungerne di nuove: gravi micosi, soprattutto agli arti inferiori, malattie polmonari e infezioni genitali, scabbia. Le scarpe non sono adatte al fango, i vestiti e l’alimentazione alle condizioni e alle basse temperature.

Nel campo, Medici Senza Frontiere ha impiegato 3 medici e 5 infermieri che ogni giorno visitano tra le 100 e le 200 persone circa. “Temiamo che con il ritorno dell’estate – date la situazione e la mancanza di un sistema fognario, igienico e sanitario adeguato – arrivi la tubercolosi”. Probabilmente ci sono casi di HIV, ma mancano i fondi per acquistare i test da effettuare sul luogo. “Se abbiamo sospetti, li mandiamo in ospedale a Calais. Ma spesso rifiutano per paura”.

Nel campo, le storie di molti sono simili, ma il sogno è uno e comune: raggiungere il Regno Unito, raggiungere Londra. “Lì c’è lavoro, l’inglese lo capisco, posso rifarmi una vita, rifarmela bella, nuova, dimenticare” racconta un ragazzo afghano di Kunduz.

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Anche Shikib è afghano, ma di Kabul. Il padre faceva parte di un commando di talebani, prima di morire in combattimento e lasciare la sua parte di guerra in eredità ai figli. Nel ’99, quando il fratello maggiore viene ucciso, Shikib ha soli 12 anni. La madre decide di fuggire con i figli che le restano – sa che alcuni amici vivono a Londra. Shikib frequenta così tutte le scuole nel Regno Unito: “Fino ai 18 anni si ha diritto all’assistenza statale, dopo bisogna far richiesta per una VISA”. Ottiene altri cinque anni, ma a 23 viene espulso. “Ero all’ultimo anno di college, lavoravo in un bel negozio a Oxford Circus, la mia ragazza è inglese, la mia lingua è l’inglese, i miei amici sono inglesi. La mia casa non è più Kabul, è Londra. Da quattro mesi vivo nel fango qui a Calais, una vita che non è vita, ma un’attesa di qualcosa che non arriva mai. I don’t belong here”.

Come molti altri, Shikib tenta ogni notte di passare la Manica: treni e camion vengono assaltati col primo buio, tra scontri con la polizia, pestaggi e violenze, e gas lacrimogeni che spesso raggiungono anche l’area in cui si trovano donne e i bambini. Il mattino seguente, quasi sempre qualcuno manca all’appello degli amici.

“La chiamano Jungle. Giungla. Ma questa non è vita nemmeno per un animale. Noi valiamo meno del vostro gatto, del vostro cane cui comprate ogni giorno da mangiare. Noi non contiamo nulla. Noi non siamo nessuno. Non esistiamo, e non dovremmo esistere. E anche vivere con questa consapevolezza non è vita”.

Marta Clinco
Cerco, ascolto, scrivo storie. Tra Medio Oriente e Nord Africa.

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