Del: 9 Febbraio 2016 Di: Tommaso Sansone Commenti: 0

“This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate” è il titolo del quarto libro di Naomi Klein, giornalista, regista e attivista canadese famosa per la sua posizione nettamente ostile alla globalizzazione e all’economia capitalista.
Dopo aver conquistato il 5° posto nella classifica dei best-seller per ottobre 2014 dal New York Times, l’opera viene adattata da Avi Lewis su pellicola, sbarcando ma non sbancando nelle sale statunitensi il 2 settembre 2015 (solo $16,692 incassati finora).
Costruito quasi come una prova tangibile e illustrativa delle convinzioni dell’autrice, il film-documentario porta lo spettatore a prendere coscienza delle ingiustizie sociali e dai disastri ecologici causati dallo sfruttamento non sostenibile delle risorse naturali.

Il cambiamento climatico però, che stando al titolo dovrebbe rivestire il ruolo di protagonista, viene schiacciato fin da subito ai bordi dello schermo, dove viene rimodellato come una cornice, utilizzata dal regista per inquadrare vere e proprie tragedie umanitarie, di fronte alle quali la tematica del surriscaldamento globale impallidisce, fino a passare in background.
La Klein passa in rassegna il globo, portando alla luce eco-crimini anonimi o noti, ma sempre di entità impressionante, dalla deforestazione per estrarre le sabbie bituminose dell’Alberta (Canada) fino ai livelli di inquinamento record del particolato in Cina.
Ne emerge una realtà drammatica e alienante (purtroppo drenata di ogni emotività dallo scadente doppiaggio della versione italiana) in cui gli abitanti di paesaggi vergini e incontaminati vengono investiti senza preavviso delle mastodontiche opere di land-use change e dal corollario burocratico-amministrativo che le rende inarrestabili.
La troupe intervista e raccoglie le storie delle vittime che si battono tra proteste, occupazioni ed azioni legali per difendere i propri diritti dalle speculazioni monetarie di terze parti senza scrupoli, che rimangono senza nome, invisibili, nascosti dal meccanismo dell’industria, dell’economia e della burocrazia, in cui i colpevoli siamo tutti e nessuno.
Per fermare queste atrocità, la Klein presenta la sua soluzione, semplice e inevitabile: una rivoluzione globale.

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Una scena tratta dal film. Gli attivisti greci di Halkidiki esultano per la sentenza appena emessa dal tribunale, che ha decretato la sospensione delle trivellazioni per l’apertura di una miniera d’oro.

“Questo cambia tutto” è il titolo del libro e del lungometraggio, difatti il messaggio che il pubblico percepisce al termine della proiezione è circa il seguente:
“Questo (Il cambiamento climatico) cambia tutto” perché è il rovescio della medaglia per eccellenza del sistema industriale, e perché è la prima ritorsione ambientale che coinvolge l’intero pianeta, abbattendosi indistintamente sia i padroni sia le vittime dell’economia capitalista.
Gli uomini si troveranno riuniti sulla stessa barca a fronteggiare una tempesta cui nessuno può sfuggire, e solo allora i giusti si uniranno agli oppressi e insieme faranno cadere il sistema che minaccia il futuro del pianeta.
E questo film sarà la molla che spingerà anche voi spettatori a prendere parte alla lotta, dando inizio alla rivoluzione, perché “questo (film) cambia tutto”.
Come se non bastasse, nelle scene finali la voce narrante sentenzia con fermezza l’unica alternativa plausibile, l’unica speranza che può sventare la catastrofe:
I tanti piccoli movimenti di protesta nati nei territori colpiti dagli eco-disastri cresceranno, si metteranno in contatto con altre comunità consapevoli e si ricongiungeranno a livello mondiale, creando così una gigantesca rete di protesta dotata finalmente della forza decisionale necessaria a boicottare e distruggere il capitalismo e i suoi crimini contro la natura.
È davvero possibile?
E soprattutto, è questa l’unica soluzione al problema?
A inizio dicembre 2015, i rappresentanti di quasi tutti i Paesi del mondo erano riuniti alla Conference of the Parties di Parigi (COP21) per discutere le strategie di mitigazione e adattamento da finanziare per ridurre le emissioni di gas serra.
Quasi in risposta agli atti di terrorismo del 13 novembre, al centro congressi di Le Bourget si respirava un clima di propositività e di entusiasmo dovuto ai recenti avvenimenti sociali, culturali, politici e tecnologici in tema ambientale, che mostrano come la nostra civiltà sia già in possesso degli strumenti necessari a mantenere il rialzo delle temperature al di sotto della soglia critica: il cosiddetto target dei 2 °C.

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La teoria dei “cunei di stabilizzazione” è uno dei tanti strumenti analitici sviluppati per la riduzione delle emissioni. La figura mostra le variazioni dell’utilizzo/sviluppo di varie tecnologie/settori che gli esperti suggeriscono di attuare nel futuro per assottigliare i flussi antropogenici di gas serra. Si noti la vasta gamma di modalità di intervento. Il grafico è riferito alla città di Toronto (Canada). Fonte: “Climate solutions”, WWF, 2015.

Chiaramente, una tale transizione verso un sistema energetico-industriale pulito non può che incorrere nei tentativi di sabotaggio da parte delle lobby del carbone e degli idrocarburi, che cercano di rallentare o compromettere i negoziati sul clima corrompendo i politici e gli scienziati, e di instillare nell’opinione pubblica un atteggiamento scettico o addirittura ostile alle teorie del surriscaldamento globale.
La sfida della COP21 era quella di produrre un documento legale e vincolante che obbligasse le nazioni (soprattutto le più sviluppate) a diminuire le proprie emissioni: una parte di burocrati e di stakeholder coscienziosi si è battuta con fervore per far sì che al tavolo delle trattative fossero approvate le misure di mitigazione faticosamente partorite dagli scienziati di mezzo mondo.
This changes everything è stato distribuito in Europa proprio nei giorni dei negoziati francesi, e così, mentre a Parigi andava in onda il futuro dell’ecologia, nei cinema veniva proiettata una soluzione vecchia e utopica, oltre che cieca e inefficace; incapace di realizzare che l’imminente battaglia contro il climate change non si combatterà con dei raid di sabotaggio e disobbedienza civile, ma tramite delle conquiste progressive e irreversibili in campo politico e legislativo.
Con tutte le modalità di intervento indicate dalla scienza e con tutte le variabili e le incertezze che rendono il cambiamento climatico il più grande, complesso e delicato problema ambientale, la Klein ne ha ridotto la soluzione a una mera questione di forza (la rivoluzione sociale), passando così sotto silenzio il fatto che la transizione verde è ostacolata non solo dai potenti del fossile, ma anche da una serie di problemi di varia natura.
Ad esempio, le energie rinnovabili, che nel documentario vengono osannate come un dono divino, sono ben lungi dal soddisfare da sole il fabbisogno della popolazione mondiale, che secondo le proiezioni è destinata a raggiungere l’esorbitante quota di 9,7 miliardi di persone entro il 2050.
Per raggiungere tale obiettivo è necessaria l’applicazione rapida e su vasta scala di una serie di interventi ausiliari come l’aumento dell’efficienza dei motori industriali e dei mezzi di trasporto, l’installazione delle tecnologie per la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS), la diffusione delle politiche di fossil fuel divestment e di riduzione dei consumi, in cui forse un giorno compariranno anche i concetti di decrescita e di limite demografico.

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La teoria dei cunei di stabilizzazione suggerisce di adottare lo scenario “Blue Map”, che prevede la diminuzione del 50% delle emissioni globali nel 2050 rispetto ai livelli del 2010. Si noti come una parte determinante della riduzione stimata provenga dalle tecnologie CCS, dalle centrali nucleari e dall’aumento dell’efficienza energetica. Fonte: International Energy Agency (2011).

D’altro canto, stupisce e delude che nell’adattamento cinematografico (uscito nel 2015), non sia stato inserito alcun riferimento al fatto che disinvestire dal mercato degli idrocarburi sarebbe l’offensiva perfetta per stroncare le attività delle organizzazioni terroriste, finanziate in larga parte dal contrabbando di combustibili fossili.
L’opera trasmette anche un concetto poco attendibile, cioè che la mitigazione del climate change implichi necessariamente la fine delle ingiustizie sociali.
Intanto, queste andrebbero debellate a prescindere dallo stato dell’ecosistema, e comunque potrebbero continuare ad esistere anche in una civiltà a zero emissioni.
Anzi, non è da escludere la probabilità che in futuro le stesse vessazioni possano essere attuate per il monopolio delle aree più proficue per la produzione di potenza da fonti pulite.
Infine, è assurdo pensare che un documentario – per quanto bene sia costruito – possa spingere lo spettatore generico ad abbandonare di colpo la propria quotidianità per unirsi ad un movimento di attivismo ambientale estremo, fatto di proteste eclatanti e sistematiche, che spesso finiscono in scontri a senso unico con le forze dell’ordine.

Davvero “Questo (film) cambia tutto”? No.

La pellicola di Avi Lewis non cambia un bel niente, se non la consapevolezza dello spettatore sugli eco-crimini tutt’ora in corso, la cui sconvolgente gravosità viene fissata nella mente del pubblico attraverso le strazianti scene delle comunità sfrattate dalle proprie terre, divelte e avvelenate.
Per questo motivo “This changes everything” è un lungometraggio di denuncia déjà-vu e non all’altezza di affrontare la difficile materia del surriscaldamento globale.
È un reportage crudo, opprimente e romantico, che smuove il senso etico della platea suscitando emozioni forti, ma che non si confronta in modo umile e razionale con la realtà dei fatti, non approda ad una soluzione verosimile, e infine lascia il tempo, o meglio il clima, che trova: quello pericolosamente diretto oltre la soglia dei 2° C.
In compenso, il film ha il pregio di portare sotto i riflettori i meccanismi di disinformazione che vengono messi in atto dai politici e dalle lobby petrolifere al fine di manipolare il libero arbitrio della popolazione sul tema ambientale.
La Klein rivela il doppiogiochismo e il greenwashing dei leader che promettono contemporaneamente la chiusura e la crescita dei business inquinanti, e smaschera l’ipocrisia degli pseudo-scienziati dispensatori di soluzioni facili per raffreddare il pianeta (come lo spargimento in atmosfera di gas artificiali a base di zolfo – una tecnica assolutamente improponibile in quanto dinamicamente imprevedibile, nonché letale per l’ecosistema).

Il documentario sbugiarda clamorosamente l’atteggiamento di progressivismo ambientale manifestato da Barack Obama agli inizi del suo mandato. Viene mostrata la clip di un discorso tenuto nel Cushing (Oklahoma) il 22 marzo 2012, quando il presidente dichiara fieramente che la sua amministrazione sta facendo tutto il possibile per aumentare le estrazioni di idrocarburi.

In difesa della produzione va anche detto che le critiche mosse fin qui sono parzialmente ingiustificate se si considera l’enunciato che segue il titolo – “Capitalism vs. the Climate” – che ridimensiona a priori le aspettative del pubblico scientifico più esigente.
Quest’ultimo è ancora in attesa di una pellicola (sia pure fiction) intrigante e comunicativa, che realizzi una lucida sintesi tra il rigido sapere scientifico finora accumulato sul cambiamento climatico e le estremamente più incerte e caotiche ripercussioni di questo fenomeno sul sistema umano.

Tommaso Sansone
Mi piace fare e imparare cose nuove. Di me non so quasi niente.

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