Del: 28 Febbraio 2016 Di: Redazione Commenti: 0

Daria Signorotto

La scorsa settimana è arrivata una sentenza importante da una corte suprema di Manhattan. Kesha Rose Sebert, in arte Ke$ha, aveva chiesto, ormai due anni fa, di poter recidere il contratto che la lega alla Sony per l’uscita di altri sei album.

Obiettivo era interrompere ogni rapporto con il suo producer, Łukasz Sebastian Gottwald, alias Dr. Luke. “So che non posso lavorare con lui. Non riesco fisicamente. Non mi sento in alcun modo sicura,” ha dichiarato la cantante, che per dieci anni avrebbe subito abusi sessuali, fisici, verbali ed emotivi. La sentenza ha del paradossale: Kesha non avrebbe ragione di avanzare una richiesta del genere alla major, che si è limitata a offrirle di cambiare producer per evitare che i due si vedano. Ma Gottwald, in quanto hitmaker della Sony, manterrebbe un forte potere sulla produzione artistica della popstar. Insomma, la dipendenza professionale dall’uomo che la cantante identifica come il proprio aguzzino non risulterebbe motivo sufficiente per una modifica di contratto. Nessuna delle intimidazioni e delle violenze che Kesha dichiara di aver subito varrebbero come giustificazione. In sostanza si ammette che la parola di una donna non vale quanto quella di un uomo ricco e potente, supportato da una ricca e potente casa discografica.


 

Facciamo un passo indietro. A 18 anni Kesha firma un contratto con l’etichetta discografica del producer californiano Dr. Luke, la Kemosabe Entertainment. Di lì a poco, nel 2009, uscirà l’album Animal – quello della hit Tik Tok.

Finora sembra una storia à la Katy Perry: giovane artista ambiziosa e self confident sceglie di perseguire il sogno americano e, alla fine, ci riesce. Animal è disco di platino in Australia, Canada e negli States. Kesha entra nell’olimpo dell’elettropop e la sua immagine da badgirl decolla con l’uscita del video di Tik Tok: ci sono tutti gli elementi della ribellione post adolescenziale, dalla lite con i genitori (che sembrano usciti da una pubblicità anni ‘50 della Coca Cola) alle scene in da club dove finalmente si è tutti davvero liberi.

Nel 2011, poco prima dell’uscita del suo secondo album, Warrior, va in onda su MTV Ke$ha: my crazy beautiful life: i primi screzi pubblici tra Kesha e Dr. Luke emergono proprio in una puntata di questo docureality, che era concepito, già dal titolo, per mostrare la vita privata anticonvenzionale, ma tutto sommato rassicurante, della popstar. Kesha sostiene di aver avuto poco margine d’azione nella preparazione dell’album e nella stesura dei testi, e in un’intervista a Rolling Stone  dell’ottobre 2013 ribadisce: «vorrei mostrare al mondo altri lati della mia personalità, non voglio diventare una parodia di me stessa».

L’anno successivo Kesha entra in rehab a causa di un disturbo alimentare. La madre della cantante, in un’intervista a People, rivela che Dr. Luke non è estraneo alla vicenda: il produttore la avrebbe paragonata a un frigorifero, per i chili di troppo che mostrava nell’ultimo video, e avrebbe insistito perché perdesse peso velocemente.

Poco dopo essere uscita dal centro di riabilitazione Kesha intenta una causa civile a Dr. Luke, per aver abusato di lei per dieci anni.

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Se già nel 2013 aveva rivelato il carattere opprimente del proprio rapporto professionale con Dr. Luke, ora le accuse assumono tutt’altro tenore. La dipendenza economica e professionale di Kesha dal producer potrebbe essere una delle ragioni per cui la denuncia è arrivata, come spesso succede in questi casi, anni dopo la data in cui sarebbero cominciate le violenze. Per fare un triste compendio di quanto Kesha ha riportato, basti dire che la cantante sostiene di essere stata drogata e violentata da Dr. Luke subito dopo la firma del contratto.

Nel giugno 2014 Kesha ha deciso di coinvolgere nella causa la Sony, proprietaria dell’etichetta discografica di Dr. Luke. Ad alcuni questa disperata ricerca di una via d’uscita dal contratto è sembrata un bieco tentativo di raggiro. Così è parso anche alla Sony, che ha deciso di sostenere Dr. Luke. Dopo anni dedicati a fare di Kesha un’artista di successo, lei si sarebbe rivelata un’ingrata. La Sony si è schierata sulla base di un principio profondamente misogino: il successo di un’artista non ha nulla a che fare con i meriti dell’artista stessa, ma dell’uomo che l’ha “creata”.

Un atteggiamento riservato alle donne del mondo dello spettacolo e non, perfettamente riassunto nella frase «I made that bitch famous», rivolta da Kayne West a Taylor Swift.

Come nel caso di Bill Cosby, quando a essere accusato di violenza è un uomo professionalmente affermato, c’è il rischio che le accuse vengano viste come tentativi, orchestrati da diaboliche arrampicatrici sociali, di ottenere denaro e visibilità. Negli USA (e nel resto del mondo), il 68% delle violenze sessuali non viene denunciato e il numero di accuse false è a dir poco irrisorio, questo dovrebbe portare a parteggiare per la possibile nonché probabile vittima. I dati spesso sbandierati per dimostrare l’inconsistenza delle accuse di violenza si basano su analisi faziose, che accolgono una definizione di manica larga di “accusa falsa”. In alcuni casi la denuncia viene ritirata per paura di intimidazioni o di essere sottoposti a victim-shaming. O perché la polizia non ritiene possibile procedere.

Fortunatamente, fan e colleghe (più qualche collega) si sono mobilitati per supportare Kesha. In una lettera, Lena Dunham ha sottolineato come la sentenza sia nauseante e sconvolgente non solo per la cantante, ma per tutte le donne che il sistema di giustizia americano lascia inermi di fronte a chi commette abusi. Dopo la sentenza è stata anche lanciata una campagna di crowd-founding perché Keisha possa essere esonerata dagli obblighi contrattuali con Sony.

La solidarietà c’è, ma da sola non può tamponare le evidenti falle di una sentenza che rischia di scoraggiare tante altre donne dal denunciare gli abusi subiti sul lavoro. Quello della stragrande maggioranza delle cause in cui si riportano violenze sessuali e/o psicologiche è un’epilogo sterile e inconsistente. La considerazione praticamente nulla della corte per le accuse mosse da Keisha, considerate impossibili  da provare – e quindi irrilevanti –  ne è conferma.

Non pare opportuno parlare di Gottwald/Dr. Luke in questo articolo, non più dello stretto necessario. Non si può non citare però il suo ridicolo tweet di difesa.

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