Del: 28 Febbraio 2016 Di: Francesca Motta Commenti: 0

Si racconta che Cynthia Plaster Caster, una delle più note groupies di sempre, abbia avuto l’illuminazione sul come avvicinarsi ai propri idoli durante una noiosa lezione d’arte. Avrebbe chiesto a ciascuno di loro — o almeno ai suoi preferiti — di partecipare al suo progetto artistico: una collezione di calchi in gesso di attributi maschili. Erano gli anni Sessanta, il rock stava vivendo il suo momento di gloria, la rivoluzione sessuale era alle porte, la gente (artisti e non) sentiva sempre più il bisogno di stupire e di essere stupita. Cynthia aveva avuto l’idea giusta al momento giusto, e furono diverse le rockstar a spogliarsi per lei, in studio o in camera da letto.

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Ma gli anni Sessanta sono finiti, il punk è morto, pure il rock parrebbe non stare troppo bene, e parlare di groupies risulta oggi estemporaneo — un po’ come ascoltare i 45 giri, solo molto meno hipster.

Eppure il “fenomeno groupies” non è affatto scomparso: si è solamente evoluto, adattandosi ai tempi e assumendo proporzioni e aspetti parecchio inquietanti. I tempi in cui le ragazze che volevano arrivare ai propri idoli dovevano inventarsi scultrici d’avanguardia, o accaparrarsi il posto in transenna ad ogni concerto, paiono ben lontani. Oggi non serve una giacca di pelle aperta su una scollatura vertiginosa per attirare il chitarrista di quella band che sta scalando le classifiche, basta uno smartphone e una connessione funzionante. Instagram al posto del rossetto, Snapchat in cambio di un paio di calze a rete, Twitter invece delle lettere d’amore.

Il fenomeno delle “groupies 2.0” — ragazze giovanissime, tra i 15 e i 20 anni, che contattano i membri delle band attraverso i social network — è sempre più diffuso. I musicisti interessati sono solitamente giovani, non troppo noti ma famosi quel tanto da riempire un locale di grandi dimensioni. Sono molto attivi su Twitter e Instagram – Facebook viene ormai considerato un social per vecchi – non solo attraverso le pagine ufficiali del gruppo, ma gestendo anche in prima persona i rispettivi profili personali, postando foto e rispondendo, di tanto in tanto, a qualche fan.

La possibilità di poter parlare direttamente con colui che si ha come sfondo del cellulare da parecchi mesi (per di più senza l’imbarazzo di doverlo fare di persona) ha spinto moltissime ragazze a contattare i vari cantanti, batteristi, bassisti, tastieristi o chitarristi che siano (i frontmen non sono gli unici ad aver successo, e questo accadeva già negli anni Sessanta), a taggarli in alcune foto e a commentare i loro tweet riempiendoli di menzioni, in una ricerca costante di quel like, o quel cuoricino su Instagram, pubblico trofeo da screenshottare e salvare nella cartella “OMG”.

Alcune si approcciano alle proprie “celebrity crush” in maniera pacata, ringraziandole per un concerto o facendo apprezzamenti su questa o quella canzone, altre, invece, si lanciano in commenti che vanno dall’abbastanza spinto al decisamente troppo spinto toccando vette del se questo ti denuncia forse fa anche bene.

Navigando un po’ in rete, tra profili Twitter e pagine Instagram delle ragazze appartenenti ai vari fandom di giovani artisti o band (spesso composte tutte da uomini, ma restie alla definizione di “boyband”) si notano in fretta tre grandi schieramenti: quelle che hanno approcciato i musicisti rimediandosi un’uscita, o un drink o forse una notte in albergo, quelle che hanno scritto, taggato, mandato snap, ricevendo indietro solo qualche like, e le fan “normali”, cioè quelle che seguono la band senza tentare di portarsi a letto nessuno.

I rapporti fra i tre gruppi sono semplici quanto evidenti (soprattutto perché tutto avviene via web, a colpi di post su Twitter e commenti alle foto, accessibili a chiunque sia iscritto al social in questione): il gruppo A, quello delle “groupies vittoriose”, è molto coeso e i suoi membri si sostengono a vicenda, a meno che lo stesso musicista non abbia una storia con due di loro contemporaneamente (a quel punto scatta la rissa a colpi di menzioni o “indiretti”, post rivolti contro un utente pubblicati senza menzionare l’utente in questione).

I membri del gruppo B – le “wannabe groupie” – o adulano le ragazze del gruppo A, che hanno raggiunto l’agognato obiettivo, oppure le coprono di insulti, definendole “zoccole”, “troie” e chi più ne ha più ne metta. Le fan “normali”, invece, si limitano a osservare senza immischiarsi. Il loro giudizio nei confronti dei gruppi A e B è tutt’altro che lusinghiero e talvolta lo scrivono pure, o lo fanno intendere, tentando però di tenersi il più lontano possibile da queste diatribe.

groupGli aspetti inquietanti del fenomeno sono parecchi: in primis il fatto che sia tutto pubblico – merito, ovviamente, della cultura del social network, che spinge a dar mostra di sé, a esporre la propria vita (o parte di essa) in base a ciò che una qualche opinione comune ritiene cool, figo, giusto. Se una ragazza del gruppo A esce con un musicista più o meno conosciuto, tempo un paio d’ore e avrà postato una manciata di foto sui vari social, mandato un paio di video con Snapchat, scritto un paio di tweet allusivi, pubblicato qualche screenshot di qualche conversazione di Whatsapp o Messenger (badando, però, a oscurare solo in parte la foto profilo della persona con cui sta messaggiando, per fingere di voler mantenere una certa privacy). Nel giro di poche ore tutto il fandom sa cosa hanno fatto, o quanto meno dove si trovavano e con chi. Alcune di queste, dopo una notte passata con il proprio “idolo”, hanno anche aperto dei profili Ask – un social attraverso cui si possono rivolgere all’utente delle domande in anonimo. In poche parole la versione digitalizzata delle letterine senza mittente che ci si scambiava alle elementari, ma molto meno innocenti – per lamentarsi poi di alcune domande, ritenute “troppo personali” e gridare alla piccolezza del genere umano.

Sembra che queste ragazze non siano attratte tanto dall’idea di uscire con “un tipo famoso”, quanto da quella di mostrare a tutti di avercela fatta, di essere la prescelta di quella serata. I follower aumentano, i like su Instagram pure, i commenti di altre ragazze che dicono di voler essere così belle e così alla moda come chi ce l’ha fatta proliferano, i profili Ask vengono aperti e chiusi senza sosta. Si entra nel gruppo A, di quelle fighe per davvero, ed è una grande gioia perché, insomma, farsi tutte quelle foto provocanti con cui infarcire il proprio profilo è stata una fatica, ma ne è valsa la pena.

Poi arriva la botta, lo schiaffo in piena faccia, perché si scopre di non essere le uniche, di non essere le predilette, di essere solo una delle tante, e non è mai facile da accettare, men che meno a diciassette anni.

La notorietà sui social scema, le menzioni diventano sempre meno, gli haters diventano indifferenti e allora si cerca un’altra persona piuttosto celebre a cui scrivere, qualcun altro con cui fare un selfie, qualcuno che possa rinvigorire la curiosità del fandom. A Cinthya Plaster Caster i Kiss hanno dedicato una canzone (“Plaster Caster”, presente nell’album “Love Gun” del 1977), le groupies moderne sembrano accontentarsi di qualche retweet e di scoprire che altre fan stanno parlando di loro.

C’è chi, osservando questo fenomeno, fa spallucce, liquidando il tutto con un banale “sono solo ragazzine”. Le nuove groupies sono indubbiamente molto giovani, e si può sperare che la maturità porti loro giudizio. Tuttavia, per chi è cresciuto con l’idea di valere solo attraverso gli altri, solo in  base a chi ci si porta a letto, o al numero di likes su un social (metafora moderna dei fischi d’apprezzamento agli angoli delle strade), potrebbe essere molto difficile cambiare prospettiva.

Francesca Motta
Studio Lettere, scrivo (meglio se di inutilità), non ho idea di cosa sia il dono della sintesi, a volte fotografo, spesso inciampo, ascolto molto volentieri.

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