Del: 7 Aprile 2016 Di: Redazione Commenti: 0

Letizia Gianfranceschi

Un crimine internazionale non muore mai. Ha un tempo, un luogo e proiezioni infinite, cadenze annuali e anniversari. Ricorrenze che dimostrano che certe lezioni non si imparano mai.

C’è molto da ricordare e nulla da festeggiare il 24 aprile per gli armeni, il 27 gennaio per gli ebrei e gli altri «indesiderabili», il 20 maggio in Cambogia, l’11 luglio a Srebrenica, il 1° febbraio per gli indiani d’America. Il 7 aprile in Ruanda non c’è aria di festa, nemmeno se compi 22 anni. Non è il Liberation day, quando un’atmosfera allegra avvolge l’Amahoro Stadium di Kigali che ogni anno il 4 luglio ospita festeggiamenti pieni di retorica.

È il day of remembrance, la giornata per ricordare le vittime del genocidio, istituita dall’ONU nel 2004.

Era il 1994. Era un altro Ruanda? Erano altri tempi quelli in cui diecimila persone sono state uccise ogni giorno per cento lunghissimi giorni a colpi di machete? Era un altro mondo quello rimaneva a guardare le immagini alla TV?

Prima del 1931, quando i belgi introdussero le carte di identità etnica, nessuno sapeva di chiamarsi hutu, tutsi o twa. Tutti sapevano però se erano agricoltori, allevatori o se si occupavano di lavorare l’argilla. Questo era tutto.

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La gente del Ruanda oggi dice che prima dei colonizzatori non conosceva il genocidio. Ma chi lo conosceva? Lo conoscevano forse gli armeni, gli ebrei, i cambogiani, i bosniaci, gli indiani d’America? La poetessa Wilslawa Szymborska si domanda da dove nasca l’odio:

Non è come gli altri sentimenti, / insieme più vecchio e più giovane di loro, / da solo genera le cause / che lo fanno nascere.

Pochi comandano, molti obbediscono. Secondo i teorici dell’elitismo, basta questo semplice principio per spiegare il paradosso dell’obbedienza civile. Ma per quanto tempo può una minoranza organizzata imporsi sulla moltitudine disorganizzata? In Ruanda i tutsi sono sempre stati solo il 14% della popolazione. Una minoranza privilegiata, aristocratica, dotata di uno straordinario talento politico che, nella prospettiva della madrepatria belga, mal si conciliava con il colore della loro pelle. Eppure, nel 1959, la maggioranza hutu riesce a spodestare la monarchia tutsi e a proclamare la repubblica. Il «regicidio» genera un flusso di profughi tutsi in fuga verso i paesi confinanti. La libertà è una speranza senza forma in Ruanda, anche dopo la tanto sognata indipendenza dal Belgio, finalmente ottenuta nel 1962. Ad un regime autoritario straniero segue quello instaurato nel 1973 dal generale hutu J. Habayarimana, destinato a morire nel misterioso incidente aereo del 6 aprile 1994.

È un fatto che la meschinità degli uomini sia una miccia in cerca di fuoco, ma sbaglia chi pensa che nella storia abbia qualche ruolo il caso fortuito, che il casus belli sia più che un pretesto, insomma che il rapimento di Elena basti a spiegare tutto.

Il 7 aprile in Ruanda niente è avvenuto per caso. Non è per caso che la Radio des Milles Collines diffonde l’ordine di uccidere «gli scarafaggi tutsi». Nella Storia spesso l’odio è pilotato, incanalato e usato per scopi politici. Così in cinque mesi la terra delle mille colline diventa quella delle montagne di cadaveri. Dove fosse la comunità internazionale, quella stessa comunità che nel 1948 si era riunita intorno a un tavolo per concludere la Convenzione ONU per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, pochi l’hanno capito. S’era persa, ma è tornata giusto in tempo per istituire un tribunale penale internazionale ad hoc (TPIR) che recentemente ha terminato il suo mandato dopo 61 condanne e 14 assoluzioni. Vallo a spiegare alle vittime che la giustizia è simbolica, che la storia ci pensa da sola a dire chi siano i cattivi.

Cosa resta oggi di quel Ruanda?

I sopravvissuti, le famiglie dei condannati, i testimoni delle stragi, i detenuti scarcerati, i figli del genocidio.

Ventimila bambini nati dagli stupri, perché, come disse nel 2012 Margot Wallström, allora Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per i crimini sessuali in situazioni di conflitto, «È diventato più pericoloso essere una donna che va ad attingere l’acqua o che va a raccogliere la legna da ardere che essere un combattente al fronte». Dei figli del genocidio si occupa Foundation Rwanda, un’organizzazione non governativa che dal 2007 offre sostegno medico e psicologico alle madri, molte delle quali hanno contratto l’HIV in seguito alle violenze, e organizza programmi educativi per i bambini.

Quelli che, secondo studi dell’Unicef, hanno subito traumi irreversibili: su un campione di bambini e bambine che all’epoca del genocidio avevano tra i 9 e i 15 anni, 55% hanno assistito all’uccisione di propri familiari, 85% hanno sentito l’odore dei corpi in putrefazione, e 56% hanno visto altri bambini partecipare alle uccisioni.

File photo of a Rwandan boy covering his face from the stench of dead bodies

Quelli che oggi sono ventenni, come Claude, che abita nelle provincia orientale di questa terra infestata dai fantasmi di coloro che hanno visto i fiumi rossi di sangue, i corpi ammucchiati come legna da ardere e i morti nelle chiese profanate, e al Guardian dice: «La storia è passata. Dobbiamo ricordare, ma dobbiamo anche costruire il nostro futuro».

Al futuro e alla pacificazione nazionale ancora non del tutto compiuta, il Ruanda ci penserà domani: oggi per tutti è il giorno del ricordo.

 

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