Lunedì in aula 208 si è tenuta l’intervista al magistrato Antonino Di Matteo, con Nando Dalla Chiesa, Direttore dell’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata e professore di Sociologia della criminalità organizzata all’Università Statale di Milano. L’aula, intitolata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, era gremita di studenti e non solo, emozionati alla presenza del magistrato impegnato nel processo sulla trattativa Stato–mafia e che poche ore prima a Palazzo Marino aveva ricevuto la cittadinanza onoraria della città di Milano, conferitagli all’unanimità dal Consiglio comunale lo scorso 15 febbraio. Ma l’iniziativa non si è esaurita tra le mura della sede del Comune.
L’incontro è proseguito all’Università Statale, introdotto da Pierpaolo Farina, ideatore di WikiMafia – Libera Enciclopedia sulle Mafie, che ha dichiarato: “la battaglia non scontata per la cittadinanza onoraria la dobbiamo oggi alla tenacia e alla capacità politica di David Gentili, presidente della Commissione Consiliare Antimafia che ha portato avanti la nostra richiesta”.
Gli obiettivi dell’intervista, come ha evidenziato il professore Nando Dalla Chiesa, sono aiutare la cittadinanza a capire vicende intricate di cui è protagonista il nostro Paese, rendere la verità più accessibile ed esprimere vicinanza e stima al pm Di Matteo.
Il magistrato osserva i volti degli studenti accalcati nell’aula, ringrazia ed esprime la sua commozione nell’essere accanto a Nando dalla Chiesa, figlio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, davanti a tanti studenti e nell’aula intitolata ai suoi due più grandi maestri, coloro che lo hanno spinto a offrire il suo contributo per ricordarne la memoria e l’operato.
“Il fatto che in una università si affrontino questi argomenti in uno stato che sta perdendo la sua memoria mi ricorda il senso più bello di essere servitore dello stato come magistrato e della collettività soprattutto per chi può solo nel diritto trovare la speranza di un futuro”.
Di Matteo ha indossato la toga per la prima volta il 19 luglio 1992, quando si è offerto volontario per vegliare alla bara di Paolo Borsellino, nel corridoio del tribunale di Palermo. Poi gli è stata affidata l’indagine per l’omicidio del giudice Saetta e di suo figlio che lo porta alla prima condanna all’ergastolo per Totò Riina. Un importante passo avanti nella memoria del giudice istruttore Rocco Chinnici, ucciso nel 1983, fu fatto quando Di Matteo sulla base di nuovi indizi fa riaprire il caso, ottenendo la condanna per Antonino e Ignazio Salvo.
Nel 1995 inizia a occuparsi dell’indagine sulle stragi di Capaci e via d’Amelio. Il 1995 è anche l’anno in cui gli viene assegnata la scorta.
Le sue indagini lo hanno portato spesso a scontrarsi con quella nicchia di persone che fanno parte di una zona grigia di rapporti che intercorrono tra lo Stato italiano e Cosa Nostra.
E dunque la domanda che rivolge il professore Nando Dalla Ciesa al PM palermitano è: che stato è questo e per quale stato lavora?
Di Matteo risponde con un appello a tutti gli studenti nonché cittadini italiani: “Abbandonate l’idea che la mafia sia ordinaria criminalità, non cadete nell’errore di certa informazione che descrive Cosa Nostra come una semplice organizzazione dedita al traffico di stupefacenti, ad appalti, estorsioni.”
“Cosa Nostra è stata sempre un’organizzazione che ha avuto come essenza fondamentale la ricerca di un rapporto con il potere ufficiale politico istituzionale.”
Spesso si cade nell’errore di semplificare la criminalità organizzata in una guerra tra stato e antistato, ma la mafia ha sempre cercato il suo potere all’interno delle istituzioni. Il dialogo che intercorre tra Stato e Mafia ha una lunga storia che comincia con lo sbarco delle truppe americane in Sicilia. Il capitano dei servizi segreti statunitensi Scotten fu inviato nel 1943 a Palermo per indagare sul fenomeno mafioso. Nel suo dossier, in data 29 ottobre 1943, al paragrafo 13, Scotten riporta le «possibili soluzioni per affrontare il problema mafia» sviluppate in tre punti “a) una tregua negoziata con i capimafia; c) l’ abbandono di ogni tentativo di controllare la mafia in tutta l’isola e il ritiro in piccole enclaves strategiche, attorno alle quali costituire cordoni protettivi e al cui interno esercitare un governo militare assoluto». La strategia attuata fu però quella presentata al punto b) riportato al paragrafo 15. Proponeva per la prima volta l’accordo con i capimafia, da sviluppare secondo i seguenti punti: 1. l´unico interesse degli Alleati nel governare la Sicilia consiste nella continuazione dello sforzo bellico; 2. gli Alleati non desiderano interferire negli affari interni della Sicilia e desiderano restituirne il governo al popolo siciliano al momento opportuno; 3. gli Alleati acconsentono a non interferire con la mafia, a patto che questa accetti di desistere da tutte le attività riguardanti il movimento e il commercio di generi alimentari o di altri beni di prima necessità, oppure di prodotti che servono alla prosecuzione della guerra (…) e a patto che la mafia concordi nell´astenersi dall´interferire con il personale e le operazioni del Governo Militare Alleato».
La tregua negoziata è dunque un germe molto antico nella storia del nostro Paese.
Il ruolo della magistratura: Di Matteo è un caso isolato, un’anomalia.
Come denuncia il magistrato Di Matteo, all’interno della magistratura c’è al giorno d’oggi la tendenza alla burocratizzazione che valorizza chi è attento ai numeri e all’organizzazione con un’attenzione eccessiva.
Inoltre la gerarchizzazione degli organi dalla magistratura ha impedito o quanto meno pregiudicato l’autonomia dei magistrati che indagano su queste tematiche estremamente legate agli affari di Stato degli ultimi 20 anni.
La storia dell’antimafia, in generale, è una storia fatta di casi isolati, di anomalie all’interno del sistema di omertà e corruzione che ha creato Cosa Nostra. Erano anomalie Falcone e Borsellino, lo era Carlo Alberto Dalla Chiesa, lo era Placido Rizzotto— Di Matteo oggi percepisce che il clima di coesione che era nato dopo le stragi del biennio 1992-1993 tra chi si occupava di antimafia oggi è svanito e ha lasciato spazio alla retorica di chi afferma “non sto con i mafiosi, ma non sto nemmeno con l’antimafia.” Nella politica, nella cultura e nel giornalismo le pagine della storia dell’antimafia vengono considerate chiuse come retaggio di un passato che non può più tornare e chi vuole approfondire nel solco gia tracciato dalle sentenze viene visto come chi si vuole occupare di archeologia giudiziaria.
“Per rispettare la memoria dei nostri morti noi cittadini, io come magistrato, dobbiamo contribuire all’emersione della verità”.
Stiamo progressivamente perdendo la consapevolezza del pericolo mafioso.
Di Matteo confessa agli studenti della Statale di oscillare “tra grande pessimismo e qualche momento di speranza e ottimismo” e questo è anche dovuto al fatto che “la ricostruzione sarà parziale fino a quando non ci sarà la collaborazione di chi quei fatti li ha vissuti”.