Carlotta Ludovica Passerini
Dal 12 al 17 Aprile in Festa del Perdono si è tenuta la seconda edizione del festival Statale Senza Frontiere. Accanto alle installazioni del Fuori Salone, Statale Antifascista e Antirazzista ha proposto sei giorni di incontri, presentazioni, dibattiti e concerti, toccando temi di attualità, dando voce a giovani artisti e promuovendo la partecipazione.
Ci parla del Festival una degli organizzatori, Elena Neal, studentessa del primo anno della magistrale di Filosofia.
Chi c’è dietro al Festival?
Faccio parte del collettivo universitario The Take, nato circa tre anni fa in Statale. Al nostro collettivo partecipano anche studenti di altri atenei, nonostante le attività si portino avanti in Statale seguendo un piano legato all’autoformazione. Con The Take organizziamo dibattiti e incontri e lavoriamo sul piano cittadino con altri enti come ad esempio il Cantiere (centro sociale milanese, ndr). Stiamo portando avanti la campagna Stop War Not People rispetto alla quale organizziamo incontri in università con professori ed esperti su quello che possono essere le realtà dei paesi africani oppure della comunità curda. Abbiamo collaborato con il comitato Cambio Passo attraverso Statale Solidale, facendo una raccolta di generi alimentari e di vestiti insieme ai collettivi dei licei. Abbiamo fatto una consegna partecipata di quello che avevamo raccolto direttamente a Porta Venezia (la zona dove opera Cambio Passo nell’assistere i migranti, ndr), per conoscere le persone di cui tanto si parla e siamo riusciti ad avere un momento tutti insieme fra cibo e musica. Organizziamo iniziative che seguono gli avvenimenti e le questioni puntuali perché vogliamo che l’Università giochi un ruolo che non sempre le istituzioni universitarie riescono a giocare.
Come mai avete deciso di riproporre questo Festival?
Insieme a Statale Antifascista e Antirazzista già tre anni fa avevamo organizzato un paio di incontri durante Interni. L’anno scorso, invece, abbiamo messo in piedi un vero e proprio festival di tre giorni, sempre durante Interni. Nella svendita dell’università che chiude gli spazi per gli studenti ci è sembrato che il Fuori Salone fosse un’enorme esibizione del modello universitario che è più funzionale ai privati e agli interessi del business e della Milano-vetrina. Il fatto che uno dei più grandi eventi all’interno dell’ateneo sia un evento di design e arredamento va bene, ma la dice lunga sul livello di capacità di espressione culturale – che è parecchio appiattito. Non c’è produzione del sapere critico. L’università potrebbe organizzare alcune giornate dedicate all’espressione culturale dei giovani raccogliendo anche spunti dal mondo accademico, ma non lo fa. Anzi, preferisce dar spazio a marchi noti e non si capisce perché i privati abbiano più diritto ad accedere a spazi universitari degli studenti che pagano la retta.
Com’è stato il connubio con il Fuori Salone?
Il nostro festival è un fuori–Fuori Salone. Organizziamo questo momento per intercettare le persone e farle riflettere, sia gli studenti che ogni giorno sono in Statale sia una fetta di milanesi e non che attraversano l’università esclusivamente per il Fuori Salone.
Vogliamo suggerire che l’università possa essere un polo di riferimento per tanti e non solo per gli studenti, perché c’è una sorta di separazione fra gli studenti che frequentano l’università e chi, non studiandoci, non ci va. La compresenza con Interni è stata scelta anche perché è un momento in cui è più facile mettere in evidenza il fatto che il Fuori Salone è un modo di concepire l’università, ma non è l’unico possibile, e ce ne sono altri. La compresenza è appunto uno dei modi migliori per sottolineare che l’alternativa è possibile, che un’altra università è possibile. Riguardo a questo abbiamo lanciato una campagna, ancora in corso, in cui abbiamo chiesto a chi vive l’università quali sono le problematiche con cui quotidianamente si scontra.
Non c’è solo un mondo possibile che è quello che ci viene quasi imposto in Italia e in Europa e nella crisi, ma possiamo immaginare altri modi di vita possibili.
Il festival è stato un’eterotopia durata sei giorni che ci piacerebbe espandere. È simpatico fare un’isola felice, ma vogliamo dare più spazio e più struttura possibile alle istanze interessanti che emergono e sono emerse.
Il fatto che il Festival abbia avuto luogo durante i giorni di Interni ha permesso una partecipazione maggiore?
Sarebbe ipocrita dire che non abbiamo voluto approfittare del maggior flusso, ma questo non è necessariamente negativo: siamo in un momento in cui la partecipazione non è qualcosa di spontaneo. Magari qualcuno che viene in Statale per il Fuori Salone può buttare un orecchio a ciò che stiamo dicendo. Può fermarsi, nonostante forse non sarebbe andato a un incontro organizzato da un collettivo su un tema che può essere quello delle migrazioni. Un limite infatti è dato dal fatto che di solito chi si interessa agli incontri è chi è effettivamente già interessato. Noi vediamo molto più come un valore il fatto che qualcuno che non sarebbe mai andato spontaneamente a un dibattito sulle migrazioni, ad esempio, si fermi a sentire la testimonianza di un ragazzo che vive in un centro per i profughi. Può ragionare sul fatto che queste sono persone e non sono numeri. Piuttosto che qualcuno si fermi all’incontro sul referendum, tema che non ha mai approfondito, ma ascoltando, può farsi un’opinione, e magari è anche uno di quelli che sono andati a votare domenica.
Vogliamo far vedere alle persone che si può creare una alternativa e che attivarsi è possibile.
Come avete strutturato il Festival? E quali problematiche avete riscontrato nell’organizzarlo?
Il punto di forza dell’organizzazione è stato il fatto che il percorso di avvicinamento è durato qualche mese. Le valutazioni riguardo al Festival sono ancora in corso.
Abbiamo fatto incontri con altri gruppi a partire da chi ha sempre animato Statale Antifascista e Antirazzista, sia con altri gruppi universitari o esterni, con gruppi culturali. Abbiamo agito attraverso una politica associativa, a rete.
La parte musicale è stata molto bella e interessante. Spesso molti giovani artisti faticano a trovare spazi dove esprimersi. Ci si lamenta dell’appiattimento culturale quando questo non è favorito. Abbiamo fatto una call-artist in università e siamo stati contattati da tanti gruppi, da artisti live, di musica balkan, dj set, da artisti di altre forme espressive. Siamo riusciti a organizzare sei serate piene di spettacoli, affiancate da banchetti di artisti di strada. Ai gruppi abbiamo chiesto non solo di venire a esibirsi, ma anche di partecipare alle assemblee pubbliche per conoscerci e discutere insieme.
In generale abbiamo chiesto di proporre idee per il programma per portare un proprio contributo, in un percorso all’insegna dell’incoraggiamento alla partecipazione e per dar voce a chi non ce l’ha.
Ho visto che alcuni professori hanno partecipato ai dibattiti. Come vi siete rapportati con i docenti, il rettore e gli studenti?
Ringraziamo tutti i professori che hanno partecipato. È venuto un docente di Fisica a spiegare le onde gravitazionali in un dibattito che abbiamo chiamato Onde gravitazionali: la scoperta del secolo spiegata a grandi, piccini e perfino agli umanisti e devo dire che abbiamo azzeccato in pieno con il titolo. Il fatto che a questo dibattito, la domenica pomeriggio, ci fossero grandi, piccini, anziani e studenti che prendevano appunti mostra che se la Statale volesse aprirsi, potrebbe farlo per essere un polo culturale che arricchisca il tessuto culturale milanese. Così, però, non è. È questione di modelli che si scelgono.
Non abbiamo avuto problemi, se non il fatto di essere nomadi. Non abbiamo avuto spazi perché la partecipazione in spazi adeguati non è vista come un valore. Abbiamo montato e smontato tutto tutti i giorni, la mattina alle 8, la sera alle 3 di notte. È stata una spesa di tempo e di energia, completamente privata e volontaristica. Non abbiamo avuto agevolazioni. Se l’università incoraggiasse la partecipazione, ci sarebbero gli strumenti.
Per fortuna noi siamo un gruppo strutturato, ma non trovo giusto che un gruppo più piccolo di studenti che voglia esprimere la propria opinione non possa farlo. Per far tutto da soli bisogna avere una struttura. L’università dovrebbe favorire e non ostacolare o impedire la partecipazione. Non ci sono spazi di dissenso o luoghi dove comunicare, se uno vuol dire la sua, non può farlo.
Siete studenti, avete fatto dei sacrifici per organizzare questo Festival, lo rifareste?
Certo, tutta la vita. Si ha l’opportunità di incontrare tante persone, cosa che non succede spesso a Milano. Siamo rimasti un po’ indietro con lo studio, ma dovremo recuperare.
L’anno prossimo miriamo a un percorso più strutturato che permetta una più ampia partecipazione, e martedì prossimo faremo la prima assemblea di valutazione e di bilancio per il futuro, a cui tutti possono partecipare.




