Del: 20 Maggio 2016 Di: Ilaria Guidi Commenti: 0

Giunto al suo dodicesimo film, Paolo Virzì riesce di nuovo a stupirci — oltre che a farci commuovere. Il film, La pazza gioia, è stato presentato al Festival di Cannes 2016, nella sezione Quinzaine de Réalisateurs, riscuotendo un notevole successo.

In questa chicca, scritta da Paolo Virzì con Francesca Archibugi, l’equilibrata bilancia del riso-amaro che solitamente contraddistingue il cinema virziniano pende decisamente dalla parte dell’amaro, ma non per questo non riesce, a piccoli tratti, a farci sorridere.

Si tratta infatti di una vicenda drammatica, all’interno della quale i personaggi tipici di Virzì non faticano a farsi riconoscere, contraddistinti da spontaneità e naturalezza. La storia è ambientata a Villa Biondi, una villa che ospita una comunità terapeutica di donne affette da disturbi mentali: una realtà molto varia, quindi. Protagonista indiscussa di questa variegata realtà è Beatrice Morandini Valdirana (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi), proprietaria di Villa Biondi e allo stesso tempo sua ospite presso la comunità. La “follia” di Beatrice è unica nel suo genere: ricca proprietaria, ma allo stesso tempo affetta da disturbi mentali, è convinta di trovare la felicità nelle cose belle, nel vino buono, e nei vestiti costosi, e di poter contare ancora sui numerosi contatti di ultraricchi conosciuti grazie all’ex marito, prima di essere confinata nella comunità.

Al polo opposto troviamo Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), tutt’altro che ricca e di pretese ben più umili. Donatella finisce nella comunità per via dei suoi problemi giudiziari legati all’affidamento del piccolo figlio Elia, dato in adozione a una famiglia perché lei era ritenuta non idonea a tenerlo.

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Donatella è la “nuova arrivata” in comunità, e senza dubbio motivo di attrazione per tutte, ma in particolare per Beatrice, in quanto “padrona di casa”. Questa curiosità quasi morbosa per la nuova arrivata sarà però anche la ragione dello sbocciare di una nuova amicizia. Amicizia che culminerà nella folle idea di scappare dalla comunità, alla ricerca di una felicità che per Beatrice è appunto il ritorno alla vita agiata di un tempo, e per Donatella è la speranza di poter rivedere, almeno una volta, il piccolo Elia.

Il divario tra le due è senza dubbio motivo di discordia, almeno in un primo momento, ma questa diversità troverà un equilibrio nel momento in cui lo scopo comune diventerà la ricerca di Elia.

Difficile dire se quello di Beatrice sia un reale intento di sostegno all’amica, fine a se stesso, o se rappresenti — nella sua mente, va detto, decisamente malata — solo un pretesto per interpretare il suo ruolo di “donna di mondo”: sta di fatto che questo obiettivo comune annulla le differenze e conduce la relazione tra le due donne a un’armonia quasi impensabile.

È assurdo rendersi conto che proprio coloro che hanno portato via il figlio a Donatella rientrerebbero perfettamente nella categoria di persone stimate da Beatrice: il “presidente”, “quel bravissimo avvocato”, l’”esimio dottore”… Ma tutti questi aspetti passano in secondo piano. Probabilmente la stessa Beatrice non è in grado di inquadrare lucidamente la suddetta categoria, di distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato — ammesso che sia possibile farne una distinzione netta — e tanto meno è in grado di comprendere e immedesimarsi a pieno nella tragicità della situazione di Donatella.

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Donatella, dal canto suo, dalla mente forse più lucida di Beatrice, soffre come ha sempre fatto: “Io sono nata triste”, afferma a un certo punto del film. Nonostante ciò, riesce a godersi i momenti di gioia cui la conduce la folle avventura con Beatrice, di cui apprezza la vitalità, beneficiandone, e di cui riconosce la follia, osservandola con un sorriso.

Due personalità così diverse che trovano un interesse comune nella fuga da un mondo che le esclude, ma da cui in verità non potranno mai scappare —ed è qui che sta il messaggio più amaro, ma anche realista, del film.

Un film che fa soprattutto piangere, non si può negare, ma come sempre in Virzì si ride anche, e lo si fa con un certo gusto. E si esce dal cinema con quel senso di pienezza che soddisfa, ma anche con una certa malinconia che ricorda l’”ovosodo che non va né su né giù” del protagonista dell’omonimo film, per citare lo stesso Virzì.

Ilaria Guidi

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