
Clarissa Massarelli
Alla fine del 2013, l’Eurozona stava andando incontro a una tendenza deflazionistica abbastanza preoccupante che si è poi concretizzata due anni dopo. Con deflazione si intende l’abbassamento dei prezzi di beni e servizi, o meglio un tasso di inflazione negativo. L’inflazione infatti può essere intuitivamente definita come l’aumento dei prezzi dei beni e servizi nel tempo. Per l’Unione Europea un tasso ottimale di inflazione si aggira intorno al 2%. Un’altra chiave di lettura della deflazione potrebbe essere l’aumento del potere di acquisto della moneta corrente. Un’inflazione che non cresce è un problema per Paesi con un debito pubblico elevato come quelli dell’Eurozona. Ma perché è un problema?
Pensandoci, una prospettiva in cui i prezzi continuano a scendere sembra essere la ricetta giusta per risollevarsi da una crisi. In realtà non è così perché una deflazione è insidiosa e dannosa come può esserlo una iperinflazione (come nella Repubblica di Weimar). In un periodo di deflazione il calo dei prezzi dei beni e soprattutto dei servizi, come i trasporti ad esempio, portano a un abbassamento degli stipendi rendendo così più difficile pagare i propri debiti (come un mutuo o un qualsiasi altro finanziamento). Altro effetto della deflazione è quella di rimandare gli acquisti nel tempo: ogni persona sapendo che i prezzi continueranno a scendere aspetterà a comprare il bene a cui è interessata fino a raggiungere il prezzo più ottimale.
Questo comportamento azzera la crescita dei consumi che è la base fondamentale per la ripresa di un Paese e per la crescita del PIL ed è anche il motivo per cui i Paesi con un elevato debito sovrano si trovano in difficoltà in una economia in deflazione: il rapporto debito/PIL è una frazione in cui al numeratore c’è il valore del debito pubblico e al denominatore il valore del PIL. Va da sé che con un PIL sempre più basso il debito pubblico aumenta rendendo difficile per i governi la restituzione e il pagamento dei suoi interessi.
Nel 2013 il presidente della BCE Mario Draghi aveva definito il pericolo di deflazione nell’eurozona una fase transitoria, scegliendo di non intervenire come invece fecero altre banche centrali. In questa decisione la Germania ha giocato un ruolo chiave: il suo tasso di inflazione viaggiava all’1.3%, un valore decisamente superiore rispetto agli altri Paesi europei, tra cui l’Italia, che lottava con lo 0,7%. La paura di una spinta inflazionistica che da sempre attanaglia l’élite bancaria e politica tedesca potrebbe aver influito nella decisione da parte della BCE di non intervenire e di utilizzare politiche convenzionali. L’eurozona ha preferito semplicemente ridurre il tasso di interesse sui depositi dallo 0.5% allo 0.25%.
Ad oggi, con una crescita dei prezzi che si aggira intorno allo 0.2%, la condizione ideale di un tasso inflazionistico del 2% voluto dall’UE sembra una prospettiva non realizzabile nemmeno nel medio periodo (la proiezione a 5 anni non va oltre l’1.26%). Per combattere la deflazione e un’economia che viaggia con tassi sui depositi pari a zero non sono sufficienti le classiche operazioni di politica monetaria espansiva. Queste operazioni consistono nell’acquisto di titoli da parte delle banche centrali pagandoli con soldi che le stesse stampano e inseriscono nel sistema, aumentando così l’offerta di moneta. Acquistando titoli, la Banca Centrale ne permette l’aumento del prezzo e conseguentemente l’abbassamento del suo tasso di interesse.
In teoria, le persone dovrebbero preferire la detenzione di moneta invece che di titoli, permettendo così un aumento del reddito e a seguire una crescita dei prezzi. Nel caso in cui i tassi di interesse siano a zero, le politiche monetarie espansive da sole sarebbero totalmente inefficaci ed è per questo che i tecnici definiscono questa situazione una “trappola della liquidità”. La BCE è dovuta dunque ricorrere al Quantitative Easing, una soluzione che permette di abbassare ulteriormente i tassi di interesse sotto lo zero. La manovra consiste nell’acquisto da parte delle banche centrali di titoli di Stato e di altro tipo dalle altre banche per immettere nuovo denaro nell’economia.
Questo tipo di operazione però, non essendo stata fatta subito, non sta dando i risultati sperati, secondo gli analisti della BCE. Al contrario, Regno Unito e Stati Uniti non sono stati risucchiati dalla spirale dei tassi negativi perché hanno attuato politiche di Quantitative Easing già dal 2009, con effetti positivi sul medio periodo. Per quanto riguarda invece l’eurozona, Mario Draghi ha rinviato la decisione a dicembre su un possibile prolungamento del piano di Quantitative Easing oltre il limite stabilito in partenza di marzo 2017.
Se in questa particolare congiuntura economica le politiche monetarie a completo appannaggio delle Banche Centrali non stanno dando i risultati sperati, secondo la letteratura economica dovrebbero essere più efficaci le politiche fiscali a carico dei singoli Governi dei vari Stati. Una politica fiscale può essere effettuata tramite un incremento o una riduzione del livello della spesa pubblica (quindi un aumento o riduzione del debito pubblico), degli investimenti o dell’aliquota di imposta sul reddito. In una economia immersa nelle sabbie mobili dei tassi a zero, un aumento della spesa pubblica da parte dello Stato produce un effetto secco nell’aumento del reddito pro capite delle persone. L’aumento del reddito prevede un aumento della domanda di moneta e questo comporta un tanto agognato aumento del tasso di interesse, seppur sensibile.
Perché gli agenti economici non attuano un mix di politica economica e fiscale? Per quanto riguarda l’eurozona il problema è molto semplice: l’unione monetaria non basta. I vertici dell’UE dovrebbero prima varare un serio piano di unificazione fiscale così da poter agire con un mix di politiche economiche congiunte, lasciando poi ai singoli stati uno spazio di manovra sulla politica fiscale per eventuali aggiustamenti strutturali.
Concludendo, sembra che ci siano molti scettici sulla effettiva ripresa dell’eurozona, dato che i mercati si aspettano un tasso di inflazione media all’1.28% tra 10 anni, stima molto inferiore a quella di Mario Draghi che ha previsto già dal 2018 un’inflazione media all’1.6%. Altra evidenza poco rassicurante viene da un recente studio della BCE in cui si rileva che l’aspettativa di inflazione futura è fortemente determinata dal livello di inflazione corrente.