Del: 5 Ottobre 2016 Di: Susanna Causarano Commenti: 0

Il Messico è uno dei paesi in cui il mestiere giornalista si classifica come professione rischiosa. La stampa è ostacolata da più fronti, apparentemente opposti, ma in realtà non troppo distanti fra loro.

I principali nemici della libertà di stampa in Messico sono,infatti, i narcotrafficanti e il governo. Quest’ultimo, tra il 2006 e il 2012, anni in cui fu presieduto da Felipe Calderon, attuò una lotta senza quartiere ai cartelli della droga, che si è però rapidamente trasformata in un’arma a doppio taglio.

Se si dà un occhio alla pagina Wikipedia su Felipe Calderon si legge che: “Calderon ha fatto della lotta al narcotraffico uno dei punti cardine della propria azione di governo: in virtù di questo impegno, ben 20.000 uomini delle forze armate sono impiegati nella lotta contro la criminalità organizzata ed il narcotraffico. Per quanto il problema sia ancora lontano dall’essere risolto, è stato aumentato e perfezionato l’appoggio economico e tecnico degli Stati Uniti.”

“Non c’è nulla di più errato che considerare la lotta ai cartelli della droga, come una vittoria del governo messicano o anche solo come un passo avanti” – afferma Anabel Hernandez, giornalista messicana e autrice di numerosi libri tra cui Mexico en llamas: El llegado de Calderon (2012) e Los señores del narco, presente al festival di Internazionale a Ferrara.

La conseguenza di questa guerra è stata la messa a ferro e fuoco del paese. Ne è seguita una escalation della violenza che ha finito per favorire rapimenti e omicidi di persone scomode sia ai narcos sia alla polizia messicana. Il progressivo montare delle violenze e dei regolamenti di conti ha reso difficile per i giornalisti, spesso categoria fastidiosa per chi vuole agire illecitamente nell’ombra, esercitare la propria professione. Numerosi sono i casi, circa un centinaio negli ultimi due anni, di giornalisti scomparsi e ritrovati squartati in sacchetti di plastica.

 

In Messico i giornalisti smembrati sono diventati il simbolo della libertà negata.

 

La giornalista Anabel Hernandez

 

Libertà che viene sempre più dato per scontato non ci sia, dai messicani e da chi si approccia a questo paese. I giornalisti si autocensurano per paura o perché non hanno i mezzi per scappare dal paese come ha fatto la Hernandez dopo i quattro attacchi subito in seguito alla pubblicazione nel 2010 de Los señores del narco, in cui da’ una panoramica dettagliata del cartello di Sinaloa e della collusione delle alte sfere con esso facendo nomi e cognomi.

“L’episodio che mi ha fatto capire che non potevo più rimanere in Messico è stato quando l’esercito è entrato in casa mia, di notte, in una casa protetta da allarmi e telecamere fornitemi, insieme alla scorta e ad una macchina blindata, dal governo stesso dal 2012. Non hanno rubato nulla, solo frugato nel mio archivio. Il giorno seguente sono andata a parlare con una funzionaria del governo che conosco molto bene e lei ha confermato i miei sospetti: era stato l’esercito. L’esercito dello stato che doveva proteggermi e che sulla carta ha una delle migliori leggi a tutela dei giornalisti. Purtroppo la realtà è ben diversa.” Nel 2013 Anabel si è trasferita negli Stati Uniti, una decisione sofferta ma necessaria.

Non risparmia le critiche su media e politica statunitensi, che definisce “un puro bluff, uno show dove da un po’ di anni un personaggio vale l’altro, non importa chi vince, perché a decidere non sono il presidente e il suo governo e nemmeno sono le voci che contano di più. I cartelli della droga in America sono sostituiti dalle lobby, che hanno polarizzato il dibattito politico su una generica e pericolosamente fuorviante lotta del bene contro il male.”

La giornalista non teme una vittoria di Trump, semplicemente aveva un altro compito a suo parere, che non ha nulla a che vedere con il vincere le elezioni.

Trump ha ridato adito ad un razzismo sempre latente negli Stati Uniti, mai sopito, ma per certi versi e in certe zone represso dal politically correct. Un professore di Berkeley mi ha raccontato che in una spiaggia statunitense, una signora guatemalteca con due bambini è stata insultata e mandata via. Non dico che prima nessuno avesse il desiderio desiderio di farlo, ma forse non l’avrebbe fatto con tanta disinvoltura. Trump ha rotto una barriera e riaperto un fluire di razzismo e pensiero violento che si era riuscito a contenere. Questo credo fosse il suo ruolo e lo ha svolto pienamente.”

Susanna Causarano
Osservo ma non sono sempre certa di quello che vedo e tento invano di ammazzare il tempo. Ma quello resta dov'è.

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