Del: 3 Ottobre 2016 Di: Letizia Gianfranceschi Commenti: 1

C’è una generazione- classe 1993 – che ha vissuto per oltre vent’anni in un paese, la Polonia, in cui parlare di aborto, educazione sessuale e contraccezione era un tabù.

Nata nell’anno dell’approvazione dell’Act on family planning, la legge che vieta l’aborto se non in casi eccezionali, questa generazione pensava di aver visto abbastanza. Invece, pochi giorniAct of family planning fa, la Camera bassa del Parlamento di Varsavia ha approvato in prima lettura, con 267 voti a favore, 154 contrari e 11 astenuti, un disegno di legge di iniziativa popolare che intende porre un divieto totale sul diritto all’aborto e criminalizzare coloro che dovessero violarlo (i medici, le donne e i loro familiari) con una pena fino a cinque anni di reclusione.
La sostiene, primo fra tutti, il partito di maggioranza: Pis, Diritto e Giustizia, partito cattolico-integralista che vede nell’approvazione della nuova legge sull’aborto il primo passo per ritornare, come promesso in campagna elettorale, alle tradizioni cristiane, inaugurando “una nuova civiltà in difesa della vita”, come alcuni suoi esponenti hanno recentemente dichiarato.

Non c’è stato niente da fare, invece, per la proposta di legge della coalizione Save Women che, sostenuta dal oltre 215mila firme, chiedeva il diritto all’aborto entro la dodicesima settimana di gravidanza.
Già nel 1997 vi fu un primo inasprimento della legge, in seguito ad una decisione della Corte costituzionale polacca che dichiaró incostituzionali le pratiche di interruzione della gravidanza.
Dire che finora alle donne polacche sia stata concessa poca scelta è eufemistico e fuorviante.

Sulla carta, la legge esiste e consente l’aborto in alcuni casi, per quanto eccezionali: quando la gravidanza ha esito da uno stupro, rigorosamente accertato da un pubblico ministero; quando la gravidanza mette la vita e la salute della donna in serio pericolo, necessariamente accertato tramite un parere medico; infine quando un esame prenatale rivela l’esistenza, nell’embrione, di gravi malformazioni.

In pratica, però, è quasi come se questa legge non esistesse: il cammino delle donne e delle ragazze polacche che vogliono esercitare i propri diritti riproduttivi è lungo, difficile e ricco di ostacoli. Capita spesso a queste donne di dover aspettare mesi, essere trasferite da un ospedale all’altro, sottoporsi a pressioni, manipolazioni e discriminazioni da più parti.

Non a caso, proprio per questi motivi, la Polonia è stata più volte condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
L’ultima volta, nel 2012, la ricorrente, quattordici anni e una gravidanza indesiderata esito di uno stupro, ha subito oltre il danno la beffa: informazioni contraddittorie sulle condizioni per l’interruzione della gravidanza, pressioni all’interno delle strutture ospedaliere, la proposta di allontanamento dalla famiglia, perfino la visita di un prete. Tutto questo ha portato la Corte ad affermare che la negazione dell’aborto alle condizioni in cui la legge lo prevede, costituisce una violazione plurima dei diritti umani: il diritto alla vita privata e familiare, il diritto alla libertà e alla sicurezza, il divieto di trattamenti inumani e degradanti e, infine, la libertà di coscienza dei medici.

Nel caso polacco, non sono bastate neanche le raccomandazioni provenienti dalle Nazioni Unite: dal Comitato dei diritti economici, sociali e culturali a quello per i diritti umani, passando per il Comitato preposto per vigilare sul rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, attraverso questi organismi l’ONU ha più volte ricordato che gli ostacoli legali, sociali, culturali e religiosi che impediscono un accesso facilitato all’aborto in Polonia costituiscono una violazione del diritto delle donne alla salute sessuale e riproduttiva.

Infatti, più che ridurre il numero di aborti, leggi così restrittive si accompagnano solitamente ad un aumento dei casi di aborti clandestini e all’esercizio sregolato delle obiezioni di coscienza.
Lo sanno bene coloro che hanno preso parte alla Czarny protest, la protesta «nera» (cioè degli abiti neri) organizzata nei giorni scorsi sui social e di fronte al Parlamento di Varsavia e sostenuta dalle ONG femministe. La Federation for Women and Family Planning, che persegue l’uguaglianza di genere difendendo i diritti riproduttivi delle donne, ha denunciato che, nonostante la legislazione così restrittiva, in Polonia si verificano ottocentomila aborti ogni anno.

Una questione solamente politica?
Anche la continua interferenza di attori non-statali, come la Chiesa cattolica, può contribuire a spiegare la questione, ma non è abbastanza. Perché se è vero che oltre il 90% dei polacchi si dichiara cattolico, è altrettanto vero che la società polacca è perfettamente secolarizzata.

Quella che la scrittrice polacca Agnieszka Graff ha definito «paura del femminismo» ha radici profonde. La fine del comunismo ha avuto l’effetto, inaspettato e dirompente, di produrre un ritorno alla tradizionale divisione dei ruoli familiari, accompagnata da una marginalizzazione politica ed economica delle donne. L’estensione delle libertà civili e politiche del 1989 non è stata seguita da un ampliamento dei diritti delle donne ma, al contrario, da un rafforzamento di un gender gap inossidabile.

Con l’ingresso nell’UE nel 2004 e l’inclusione della Polonia nello spazio di libera circolazione, sempre più donne polacche sono state indotte a intraprendere viaggi all’estero per interrompere le gravidanze indesiderate. Si tratta però solo di quelle abbastanza ricche da affrontarne i costi, per tutte le altre, nessuna scelta.
Così è nato il femminismo in Polonia, con un senso di urgenza e missione, con il quale ha affermato che restrizioni come quelle che da decenni in questo paese caratterizzano la legislazione non sono sostenute da politiche che facilitano la contraccezione.

Leggi come quella che il parlamento polacco sembra intenzionato ad approvare costituiscono una scorciatoia per non discutere di ciò di cui le donne hanno effettivamente bisogno. Educazione sessuale, rimozione delle barriere che ostacolano l’accesso alla contraccezione, prodotti igienico-sanitari più economici, eliminazione del divario salariale, essere interpellate, essere ascoltate, essere libere di scegliere.

La generazione polacca del 1993 non è poi tanto diversa da altre, cresciute in altri paesi europei dove i diritti legati alla salute riproduttiva esistono de jure, ma risultano difficilmente praticabili de facto.

Oggi, 3 ottobre, i sostenitori del diritto all’aborto hanno invitato le donne polacche a scioperare per manifestare il proprio dissenso ma, come rivela Gazeta Wyboreza, molte non si uniranno alla protesta per paura delle ritorsioni.
Se la nuova legge dovesse essere approvata, come è probabile che succeda, sarà per l’ennesima volta, quello che le donne non vogliono.

Letizia Gianfranceschi
Studentessa di Relazioni Internazionali. Il mondo mi incuriosisce. Mi interesso di diritti. Amo la letteratura, le lingue straniere e il tè.

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