“War porn” sono le immagini e i filmati che riportano ogni dettaglio di una guerra in corso, con una certa morbosità: riprese di combattimenti, immagini delle vittime di guerra o di persone colpite emotivamente da essa, fotografie delle armi in uso e delle sperimentazioni delle nuove tecnologie belliche.
Da qui il paragone con la pornografia, in quanto entrambe sono espressioni visive che non contestualizzano gli atti rappresentati, ma si concentrano sul dettaglio dell’atto in sè. Nei filmati pornografici main-stream non si indaga sulla relazione di coppia e sulle particolarità dei singoli personaggi – sempre che di personaggi si possa parlare – ma ci si concentra sulle parti anatomiche in questione (bocca, genitali, seno, ventre).
Anche il war porn si focalizza sul dettaglio: il cadavere di un bambino ferito alla testa da una bomba, una donna che urla in preda al dolore, un ferito che si trascina per le strade o un soldato che spara contro il nemico.
L’origine del fenomeno è rintracciabile nel periodo della Seconda Guerra del Golfo, con immagini sconcertanti come quelle che provengono dalla prigione di Abu Ghraib – oggi chiamata Prigione Centrale di Baghdad – dove i marines statunitensi torturavano prigionieri iracheni, ammanettandoli ai letti – umiliandoli, lasciandoli completamente nudi – e minacciandoli con dei cani.
Le foto mostrano con chiarezza le persone coinvolte, membri dell’esercito USA e membri della CIA, per nulla disgustate dal mostrarsi al fianco di prigionieri incapucciati e nudi oppure vicino ai cadaveri umani (per sensibilità, abbiamo scelto di non inserire immagini troppo crude, NdR).
Al contrario, sembrano fieri di infrangere sostanzialmente ogni singolo articolo delle convenzioni di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra.
Lo scandalo, emerso nel 2004, ha portato alla luce le torture e umiliazioni inflitte quotidianamente ai prigionieri – per la maggior parte politici – iracheni. Inizialmente legato alle forze statunitensi, lo scandalo si è poi espanso a macchia d’olio, coinvolgendo anche parecchi soldati britannici.
Un famoso professore e psicologo statunitense, Philip Zimbardo, fu chiamato a commentare i fatti e le immagini in questione. Richiamandosi ad un suo libro, pubblicato nel 1971, lo studioso fece riferimento ad un esperimento che lui stesso aveva compiuto a Stanford nel 1971.
“In gioco – scrive Zimbardo – non è tanto l’indole di questi militari, quanto l’appartenenza al sistema-esercito inviato per una giusta causa (contro il terrorismo), in una situazione che nella fattispecie è guerra. Ma perché un uomo possa uccidere un altro uomo è necessario che lo de-umanizzi, che lo riduca a cosa, in modo che non appaia più come suo simile, perché solo così può trovare la forza di togliergli la vita. Chiunque fra noi è portato a compiere i crimini più orrendi in una determinata situazione e in un determinato contesto.”
In seguito allo scandalo – di cui, pare, le autorità statunitensi fossero al corrente dalla primavera del 2003 – il carcere viene chiuso nel 2006, per poi essere riaperto, dopo ristrutturazione, nel febbraio del 2009. E’ stato però chiuso nuovamente nel 2014.