
La storia dello Zimbabwe è quella di una terra maledetta dalla sua naturale ricchezza e dalla combinazione paradossale di risorse naturali abbondanti e grave sottosviluppo, prima ancora che dal colonialismo, dalla guerra civile e dal regime razzista. La storia dei diamanti nell’Africa sub-sahariana è quella di una promessa e di una grande delusione.
Nel film Blood Diamonds di Edward Zwick, Leonardo Di Caprio, nei panni di un cinico mercenario che conduce affari sul contrabbando di diamanti tra Sierra Leone e Liberia, afferma che in Africa la gente si uccide “per tradizione”. Non è esattamente così. Se è innegabile che sul presente caratterizzato da violenza, sottosviluppo e corruzione, e sul futuro ancora più incerto del continente nero pesano le eredità storiche, è pur stato da più parti evidenziato il legame tra i conflitti e la gestione delle risorse naturali.
Nell’Africa sub-sahariana la violenza generata dall’imposizione arbitraria dei confini è aumentata in seguito al finanziamento di leader corrotti e forze ribelli, attraverso l’estrazione sregolata prima e il commercio poi, delle “pietre dello scandalo”: i diamanti.
I diamanti insanguinati sono quelli illegalmente immessi sul mercato per finanziare i conflitti tra gruppi ribelli e governi legittimi.
Per evitare l’immissione di diamanti insanguinati sul mercato internazionale, già nel 2000, in occasione della conferenza di Kimberley, era stato siglato un accordo che aveva portato all’istituzione del Kimberley Process Certification Scheme, in base al quale ogni partita di diamanti proveniente da uno degli Stati firmatari deve essere accompagnata da un certificato in cui si spiega la provenienza delle gemme, il modo in cui sono state estratte, il luogo in cui sono state tagliate e pulite e la loro ultima destinazione. Altri requisiti riguardano il divieto di sfruttare i diamanti per finanziare gruppi di ribelli o altre organizzazioni che mirino a rovesciare il governo legittimo riconosciuto dall’ONU e quello di importare o esportare diamanti da e verso i non-membri.
Tuttavia neppure il certificato Kimberley è riuscito a risolvere definitivamente la questione diamantifera africana. Il caso dello Zimbabwe lo dimostra. Nel 2009 il Kimberley Process ha deciso di sospendere le esportazioni dei diamanti estratti nella miniera di Marange, la più grande dello Zimbabwe e del mondo, perché le uccisioni e le violenze perpetrate dalle forze di polizia e militari, oltre al lavoro forzato e alle estrazioni sfrenate, violavano le norme di Kimberley. La sospensione però ha avuto vita breve: nel 2011 lo stesso Kimberley Process ha deciso di consentire nuovamente l’esportazione, benché il governo abbia sostanzialmente fallito nel mettere fine agli abusi, come denunciato da Human Rights Watch.
La miniera di Marange è considerata potenzialmente in grado di provvedere al 25% della fornitura mondiale di diamanti.
In questi anni lo Zimbabwe avrebbe potuto ricavare introiti per oltre 1,5 miliardi di dollari all’anno. Eppure, nonostante questa grande ricchezza, la ex Rhodesia meridionale resta un paese povero.
Secondo i dati del Global Hunger Index, riportati dal Programma alimentare delle Nazioni Unite, il 16% della popolazione dello Zimbabwe vive una situazione di insicurezza alimentare; il tasso di disoccupazione è in continua crescita, benché sia difficilmente quantificabile: nell’ultimo sondaggio, la Zimstat, agenzia nazionale di statistica, parla del 10%, anche se si ritiene che stia da tempo sottostimando il fenomeno. Altre indagini parlano di percentuali ben più alte, pari addirittura all’85%. Nel 2006 la scoperta dei giacimenti di Marange provocò una vera e propria diamond rush di contrabbandieri, minatori illegali e acquirenti internazionali, ma soprattutto comuni cittadini prostrati dal declino economico di inizio secolo e attirati dall’illusione dei facili guadagni.
Inizialmente, a nessuna compagnia privata venne riconosciuto alcun diritto esclusivo di sfruttamento delle risorse. Il governo di Harare si limitò ad aprire i giacimenti alle compagnie private, causando indirettamente l’avvio di attività illegali di estrazione. Oggi il governo incolpa le compagnie straniere cinesi, australiane e canadesi che per anni si sono occupate dell’estrazione delle risorse diamantifere della loro cattiva gestione. Per questo, recentemente, il presidente Robert Mugabe ha annunciato di voler nazionalizzare le miniere di diamanti per impedire che le imprese straniere depredino le gemme senza dichiararle, privando così il paese della ricchezza che gli spetta. Il destino di Marange è passato quindi dalle mani dei sudafricani della De Beers, che l’hanno scoperta, a quelle della britannica African Consolidated Resources, finché il governo non ha deciso di espropriare forzatamente l’impresa inglese.
L’ennesimo caso di paese in via di sviluppo arbitrariamente privato delle proprie risorse?
Le ONG da tempo accusano il regime di Marabe (ormai quasi trentennale) di aver beneficiato dalla vendita di diamanti insanguinati. In particolare Global Witness, una ONG che denuncia i legami tra sfruttamento delle risorse, conflitti, povertà e corruzione, da anni denuncia le relazioni tra le compagnie minerarie e l’esercito.
Insomma, che i diamanti costituiscano un buon affare per lo Zimbabwe è ancora tutto da dimostrare. Resta anche da vedere se l’istituzione di un vero e proprio monopolio sulle “pietre dello scandalo” possa portare benessere ad un paese che nel 2015 il Global Financial Magazine ha inserito al 24^ posto della lista dei paesi più poveri del mondo, o se la storia dei diamanti dello Zimbabwe continuerà ad essere quella di una promessa e di una grande delusione.