Mancano solo dodici giorni alla cerimonia d’insediamento del prossimo presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump. Tuttavia non si placano le polemiche, in patria e all’estero, sulla legittimità delle elezioni che lo hanno portato alla vittoria.
Il sospetto è che Putin abbia ordinato un meddle, un’ingerenza, nelle elezioni americane con l’obiettivo di favorire la scalata di Trump allo studio Ovale.
La prima accusa è di aver influenzato l’opinione degli elettori americani attraverso Sputnik e Russia Today, giornali di proprietà dello stato russo che vengono pubblicati in molte lingue del mondo – entrambi hanno un sito in italiano – che, però, sono spesso stati accusati di diffondere notizie false e fare propaganda russofila.
La seconda accusa è nota da tempo, si tratta dell’ hack subito dal DNC, il comitato nazionale del partito democratico, che ha portato alla pubblicazione di quasi ventimila mail di personalità responsabili della campagna presidenziale democratica – tra i quali il più famoso è John Podesta- su WikiLeaks.
Julian Assange, caporedattore di WikiLeaks, non ha mai rivelato la fonte che ha consegnato le mail, mentre in una recente intervista a Sean Hannity ha dichiarato che “possiamo dire, e abbiamo detto ripetutamente nel corso degli ultimi due mesi, che la nostra fonte non è il governo russo né una parte statale”.
Nonostante queste dichiarazioni, negli Stati Uniti cresce sempre di più il sospetto che un risultato imprevisto come l’elezione di Donald Trump non possa che essere stato favorito direttamente dal Cremlino e che gli hack siano stati ordinati da Putin in persona.
La versione dei fatti di Assange, infatti, stride fortemente con quella sostenuta dalle principali agenzie di intelligence statunitensi. In un briefing avvenuto il sei gennaio, Trump è stato informato da James Clapper, direttore della National Intelligence, John Brennan, direttore della CIA, e James Comey, direttore dell’FBI di indizi concreti che indicherebbero intromissioni della Russia nel processo delle elettorale americano.
Il rapporto dell’intelligence americana, desecretato venerdì sei gennaio, alla voce Key Judgements riporta che ” [the] Russian President Vladimir Putin ordered an influence campaign in 2016 aimed at the U.S. presidential election. Russia’s goals were to undermine public faith in the U.S. democratic process, denigrate Secretary Clinton, and harm her electability and potential presidency. We further assess Putin and the Russian Government developed a clear preference for President-elect Trump”.
Si afferma, quindi, che Vladimir Putin avrebbe attivamente manovrato per alterare il corso delle elezioni, riuscendo infine a far prevalere il candidato a lui più favorevole attraverso il sabotaggio della campagna di Hillary Clinton.
Julian Assange said "a 14 year old could have hacked Podesta" – why was DNC so careless? Also said Russians did not give him the info!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) January 4, 2017
Giovedì cinque gennaio James Clapper ha dichiarato: “Non pensiamo di aver mai avuto a che fare con una campagna più aggressiva o diretta nell’interferire nel nostro processo elettorale” aggiungendo, però, che non c’è modo di valutare quali effetti questo hack abbia avuto effettivamente sulle elezioni. Infine ha aggiunto, lasciando intendere che ritiene le dichiarazioni di Assange inaffidabili, “siamo convinti sempre più risolutamente della nostra valutazione”.
Intanto Trump, pur concedendo che gli hack potrebbero essere ad opera delle forze di intelligence russe, in una serie di tweet ricorda che non ci sono prove che l’elezione sia stata influenzata da questi attacchi e invita a dimenticare la faccenda al più presto. Dalla sicurezza con cui Clapper sostiene un coinvolgimento russo nella faccenda, si assume che le agenzie di intelligence americane siano in possesso di prove schiaccianti, che però non possono rivelare senza ammettere l’estensione della loro rete di controllo o di bruciarsi le fonti da cui hanno ottenuto le indicazioni che portano ad accusare la Russia.
Finché non saranno resi pubblici tutti i documenti riguardanti le indagini, però, non si potrà sapere su quali informazioni si basino le accuse.
La Russia, nella persona del ministro degli Esteri Sergey Lavrov, aveva già negato a dicembre qualsiasi suo coinvolgimento nella vicenda:”penso che sia semplicemente [una teoria N.d.R.] senza senso” e continua a farlo.
La vicenda ha destato preoccupazione anche in Europa, dove molti politici – soprattutto di estrema destra – si stanno avvicinando nettamente alle posizioni di Putin. Il sospetto è che Putin possa, e voglia, attivare la sua rete di propaganda anche in Europa per influenzare pesantemente le prossime tornate elettorali.
Se Parisi e Berlusconi scelgono la Merkel dell'euro e dell'immigrazione, no problem! Io scelgo il coraggio di Putin, Trump e Le Pen. #Liberi pic.twitter.com/ZjbHowMRsY
— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) January 7, 2017
Sono ormai famose le comparsate di Salvini a Mosca, come è stata celebre l’inchiesta del sito francese Mediapart, che ha rivelato che il Front National ha ottenuto, nel corso del 2015 un prestito di 9,4 milioni di euro alla First Czech Russian Bank che serviranno a finanziare la corsa di Marine Le Pen all’Eliseo.
La First Czech Russian Bank è al 100% di proprietà del russo Roman Jakubovic Popov, ex-manager di fiducia del miliardario Gennadij Timcenko, uno dei più grandi amici di Putin. Quando Marine Le Pen è stata posta di fronte alla questione ha risposto imperturbabile:”Da lungo tempo sosteniamo la medesima linea pro russa”, lasciando intendere che i soldi non sono stati concessi per influenzare le politiche del Front National, ma viceversa, proprio grazie ad una naturale convergenza di interessi politici (euroscetticismo, sospetto verso istituzioni quali la Nato, insofferenza nei confronti dell’influenza U.S.A.).
Probabilmente è proprio per questo che Matteo Salvini ama scattarsi selfie lascivi al centro della piazza Rossa; sta cercando di dimostrare a Putin quanto abbiano in comune nel tentativo di raggranellare un paio di milioncini da investire nella sua Lega Nord.
Niente di troppo pulito, ma nemmeno niente di troppo nuovo.
Si tratta del naturale scontro tra i soft power – parola creata dallo scienziato politico Joseph Nye per descrivere la creazione di consenso, a livello internazionale, attraverso la persuasione e non la coercizione – dei vari paesi. In ogni elezione in qualsiasi paese democratico le elezioni vengono inevitabilmente influenzate anche da interessi esterni a quelli degli elettori ed esterni al proprio stato, basti pensare alla quantità di dollari che l’Arabia Saudita, grande sostenitrice dell’estremismo islamico, ha versato nelle casse della Clinton Foundation. Non è difficile immaginare che questi finanziamenti, fosse stata eletta Hillary Clinton, avrebbero avuto il loro peso nella formulazione di una nuova dottrina sul Medioriente.
Più che dal corretto svolgimento delle loro elezioni e dell’inattacabilità dei loro valori democratici, “that what makes us special” ha ricordato Obama, l’establishment politico americano, che va dai falchi repubblicani come Mc Cain alla senatrice democratica Nancy Pelosi, sembra – e probabilmente non a torto – preoccupato, anzi terrorizzato dalle continue avances, mal viste dal suo stesso partito, di Trump a Putin.