Il termine cultura, secondo la definizione dell’antropologo Edward Burnett Tyler, è: “tutto ciò che produce l’essere umano. […] morale, credenze, usanze, arte, simboli, filosofia.”
Nonostante questa definizione, nell’ambito quotidiano, quando si parla di cultura, spesso ci si riferisce alla cultura alta o alla cultura d’élite.
I videogiochi, oggi, subiscono un stigmatizzazione dovuta sopratutto al fatto di essere un frutto della cultura popolare-come dimostra un articolo di Aldo Cazzullo del 2013– e in molti riderebbero all’idea che i videogames possano essere forme d’arte sofisticate tanto da essere messe sul piano della letteratura, della musica e della cinematografia.
Tuttavia questa concezione sembra destinata a cambiare nel giro di qualche decennio.
Il videogioco è una forma culturale che si prefigura essere una delle più importanti nel ventunesimo secolo e lo sviluppo delle tematiche è sempre più evidente.
Anche il cinema con il tempo è andato a evolvendosi, partendo da semplici cortometraggi di pochi minuti-quanti avranno considerato La sortie des usines Lumière, prima pellicola della storia del cinema, una forma d’arte?– fino a lungometraggi che trattano dai temi più superficiali ai temi più complessi e profondi.
La stessa cosa è accaduta anche ai videogiochi, dal 1970 i videogiochi cominciano ad acquisire sempre più notorietà e, poco alla volta, si sono sviluppati in tutti gli aspetti: grafica, programmazione, definizione, storytelling, scenari e sceneggiatura.
Da quando nel 1972 nacque Pong, uno dei primi videogiochi commercializzati, l’evoluzione dei videogames è stata rapidissima e incontrovertibile.
Gli aspetti dei un videogiochi che destano più sospetto a chi non conosce questo mondo è la violenza ad esso associata che è innegabilmente parte di un gruppo di videogiochi, i cosiddetti sparatutto. Stupisce che questo aspetto crei preoccupazioni così vive; la violenza è parte della vita e il videogioco come mezzo espressivo deve poter raccontare, o elaborare con il ricorso alla fantasia, ogni aspetto della vita umana. Le battaglie “culturali” che si scatenano contro i videogiochi violenti non hanno paragone con quelle contro la violenza contenuta in film o libri.
Quando si parla di videogames, inoltre, si teme l’effetto dipendenza. Innegabilmente in alcuni casi il rilascio di dopamina causato dai videogames può risolversi in una vera e propria dipendenza, tuttavia nei casi più frequenti il videogioco è più innocuo di quanto si pensi. Il meccanismo celebrale di dipendenza da videogames è stato recentemente paragonato a quello dell’alcool. Se si sottopone il cervello a stimoli positivi costantemente associati ai videogiochi si diventa dipendenti.
Tuttavia tra bere un bicchiere di vino ed essere alcolizzati corre una grossa differenza.
E lo stesso vale per i videogiochi.
La cautela, tuttavia, non è da biasimare poiché i videogiochi differiscono dalle altre forme d’arte per il grado di interattività prodotta tra il giocatore e la console. Nei videogames si agisce al contrario di quanto si fa al cinema, ad un concerto o in un museo.
Non è la stessa cosa vedere John Rambo uccidere 200 vietnamiti ed essere John Rambo che uccide 200 vietnamiti.
Nei confronti di questo nuovo mezzo di espressione culturale, dunque, non bisogna assumere posizioni estremistiche: non si può seguire la filosofia del laissez-faire di parte dei videogiocatori, che si può riassumere nel pensiero “Non censurate i videogiochi, fateli entrare nel mercato videoludico, saremo noi a decidere se un gioco va dimenticato o se diventerà popolare”. Non si può, però, nemmeno adottare una censura dura e rigida. Bisogna guardare il videogioco nel suo insieme, appellandosi ad un giudizio bilanciato.