Del: 3 Febbraio 2017 Di: Barbara Venneri Commenti: 0

È in scena dal 1 al 5 febbraio 2017 la versione della compagnia teatrale Puntozero Teatro del Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare al Piccolo Teatro Studio Melato. Per la regia regia di Giuseppe Scutellà, sul palcoscenico di via Rivoli verrà offerta la visione di un mondo dominato dall’antitesi da questo curioso gruppo teatrale.

Curioso perchè Puntozero Teatro, fondata nel 1995 dall’attore e regista Giuseppe Scutellà e dall’attrice Lisa Manzoni, è composta per i tre quarti da attori detenuti al carcere minorile Cesare Beccaria e per il resto da attori professionisti e semplici cittadini. Dalla sua nascita, il gruppo è cresciuto sempre di più tanto da poter ristrutturare e riaprire al pubblico il Teatro Beccaria grazie al “Progetto Errare”, aprendo così una finestra sul carcere. Guidati dall’obiettivo di «contrastare il fenomeno del disagio sociale e della devianza giovanile», gli attori della compagnia compiono oggi un passo avanti e mettono a segno un altro punto sbarcando al Piccolo Teatro. In questo modo il carcere non incontra più la società comunicando solo attraverso una crepa, come avrebbero fatto Piramo e Tisbe nel Sogno, ma il primo viene trascinato fuori dalle sbarre grazie al teatro e lo avvicina sempre più alla seconda.

La prima scena si apre ad Atene che rappresenta il luogo dove vige l’ordine, la morale e il rispetto delle leggi. Questa idea viene ben rispecchiata nei costumi di Teseo, Ippolita e gli innamorati che sfoggiano abiti tipicamente ateniesi, lucidi e stirati ed capelli perfettamente acconciati. Essi si trovano in antitesi con i costumi delle fate, le quali a piedi nudi, con i loro semplici gonnellini di lana sgualciti, i capelli crespi con qualche ciuffo rasta ed il corpo macchiato qua e là con vernici di vari colori, sono la metafora della follia e i comportamenti libertini che trovano la loro naturale sede nel bosco. Inoltre, con la voce suadente ed alterata e il linguaggio del corpo che si traduce con contorsioni e capriole, le fate rappresentano le passioni che esplodono al di fuori di Atene.

Mediatori tra i due luoghi sono i giovani innamorati, i quali spinti dal desiderio di evadere dall’ordine – che per Ermia e Lisandro significa repressione patriarcale – si ritrovano nella selva.

Man mano che si allontanano dalla città, i loro costumi si sgualciscono, finché non si trovano nel cuore del bosco, sudati e sfiniti, e con una Ermia sporca e senza scarpa e una Elena dai capelli spettinati e sciolti. Un altro elemento fondamentale del bosco è la magia, la quale nella rappresentazione di Scutellà sembra essere concepita in due maniere opposte tra loro.

Da un lato lo spettatore vede una forma di magia divertente, buffa e giocherellona, che è quella veicolata da Puck e il fiore. È quella che crea il disordine e le incomprensioni, ma è anche la stessa che rimette le cose al loro posto. Dall’altro invece troviamo un incantamento che, con il calare della notte, assume un cipiglio piuttosto sinistro. Ecco quindi che la preparazione del giaciglio di Titania assomiglia molto ad un rito diabolico e la sua ninnananna ad un’ inquietante cantilena. Come spesso accade, il momento di massima comicità si identifica con la trama degli artigiani, i cui personaggi principali sono un Peter Quince, il mediocre latinista con scarse capacità di leadership che si lascia trascinare da un Bottom che sopravvaluta sé stesso. In  questa versione del Sogno, la scena è resa ancora più comica dall’aggiunta di accenti veneziani e bergamaschi -i quali hanno anche il ruolo di segnalare la differenza di ceto sociale rispetto ad Ippolita e Teseo – che sono in bocca agli artigiani. Così come Atene e il bosco, realtà e finzione si conciliano grazie ai fili tirati da Oberon, anche reclusione e società si ritrovano nella stessa armonia con il teatro che assume valenza, oltre che immaginativa, evasiva.

 

Barbara Venneri
Non chiamatemi Vènneri.

Commenta