Lo scorso 15 marzo, l’associazione delle Nazioni Unite ESCWA (Economic and Social Commission for Western Asia) aveva pubblicato un report intitolato “Israeli Practices towards the Palestinian People and the Question of Apartheid.” Per la prima volta nella storia dell’ONU, un rapporto pubblicato a suo nome aveva accusato Israele di aver instaurato un regime di Apartheid nei confronti della popolazione palestinese. Tutto sembrava voler dare una sorta di continuità alla Risoluzione 2234, adottata dal Consiglio di Sicurezza il 23 dicembre 2016 permessa dall’astensione degli Stati Uniti.
In essa, si ribadiva che tutte le misure adottate da Israele mirate ad alterare la composizione demografica, le caratteristiche e lo status del territorio palestinese occupato dal 1967, inclusa Gerusalemme est, l’espansione e la costruzione di insediamenti, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca della terra, la demolizione di case e il dislocamento di civili palestinesi, sono tutte contrarie al diritto internazionale.
In risposta, il governo israeliano guidato dal primo ministro Netanyahu, il 6 febbraio, ha approvato una legge che regolarizza in modo retroattivo circa quattromila abitazioni costruite su terreni di proprietà palestinese in Cisgiordania. Tutto ciò, ovviamente in piena violazione della quarta convenzione di Ginevra che Israele afferma di rispettare. Questo era già stato statuito dalla Corte di Giustizia Internazionale nel 2004 attraverso il parere consultivo richiesto dall’assemblea generale.
Il leader dell’esecutivo quindi, ha compiuto un passo importante verso una direzione completamente opposta a quella che si è cercato di proporre da sempre per la risoluzione del conflitto, ossia la soluzione a due stati.
Lo stesso Donald Trump, nell’incontro avvenuto il 15 febbraio con Netanyahu, aveva affermato che la soluzione a due stati non è l’unica percorribile, compiendo un’importante inversione di rotta nella politica estera statunitense. Gli Stati Uniti si sono sempre fatti portavoce di tale soluzione, sostenendo fosse l’unica possibile sin dai tempi dell’amministrazione Clinton. Quindi, nel momento in cui il paese che più contribuisce ai fondi dell’Onu (nel 2015 il 22% del Budget era fornito dagli Stati Uniti) apre la strada a nuovi soluzioni, qualcosa sicuramente si smuove nell’associazione.
Il rapporto redatto in concerto da Richard Folk, ex corrispondente per le Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi dal 1967, e Virginia Talley, professoressa Scienze Politiche alla Southern Illinois University, evidenzia come il governo israeliano continui a frammentare la popolazione palestinese in maniera molto simile a ciò che accadde in Sudafrica fino al 1994. Il termine stesso Apartheid, parola derivante dalla lingua Afrikaans, significa esattamente “condizione separata” (Apart-heid). Esso è ormai considerato un crimine contro l’umanità e non è limitato esclusivamente a ciò che accadde in Sudafrica. Come stabilito dallo statuto della Corte Penale Internazionale, il crimine di apartheid è “l’insieme degli atti commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato di sistematica oppressione e dominazione da parte di un gruppo razziale nei confronti di qualsiasi altro gruppo o gruppi, commesso con l’intenzione di mantenere quel regime”. Ciò è quello che si evince e viene affermato dal rapporto in riferimento alla comunità palestinese all’interno di Israele.
I palestinesi vengono trattati come cittadini di una classe inferiore.
Coloro poi che vivono nella zona di West Bank e Gaza sono sottoposti ad un complesso sistema di segregazione e sono soggetti alla legge militare di Israele, paragonabile al regime che era in vigore nel Batustan.
Inoltre, ai palestinesi rifugiati in esilio, è impedita la possibilità di tornare nella loro terra natia in palese violazione da ciò che è stabilito dal diritto internazionale.
Come sostenuto dalla giornalista ed attivista Yara Hawari, il merito di questo rapporto non stava nella sua capacità di influenzare le politiche israeliane, bensì di sfidare la repressione che viene fatta nei confronti di movimenti, quale il BDS (Boycott, Divestment, Sanctions), accusati di essere antisemiti per il semplice fatto di opporsi apertamente allo stato di Israele.
Evidentemente non era della stessa opinione Antonio Guterres, che due giorni dopo la pubblicazione, ha eliminato il rapporto dal sito web dell’associazione. Stephan Dujarric, un portavoce dell’Onu, ha affermato che esso non rifletteva la visione del Segretario Generale e che era stato pubblicato senza una previa consultazione. Ciò ha portato alle dimissioni di Rima Khalaf, segretario esecutivo del ESCWA, convinta della veridicità del rapporto e delle sue conclusioni.
Quindi, al momento non c’è stata una storica presa di posizione della comunità internazionale e il dietrofront sicuramente non sembra di buon auspicio per la risoluzione del conflitto. Si spera nel futuro che il Segretario Generale possa risultare capace di prendere posizioni autonome e critiche senza dover sottostare alle influenze politiche statunitensi.