
Il 25 luglio 1943 Benito Mussolini venne sostituito dal generale Pietro Badoglio quale presidente del consiglio. La sfiducia ricevuta era stata doppia: sia il Gran Consiglio del fascismo che Vittorio Emanuele III avevano provveduto a rimuoverlo dalla carica.
Il motivo era semplice: l’Italia, in guerra da tre anni, stava affondando. Il 9 luglio gli Alleati erano sbarcati in Sicilia e pian piano stavano risalendo lo stivale. I fronti aperti in Africa e in Europa erano delle ferite ancora sanguinanti e a nulla valsero gli interventi delle truppe naziste: per le forze dell’Asse il baratro si avvicinava.
Nel giro di ventiquattr’ore, il duce divenne prima un semplice cittadino e poi un prigioniero. Sui generis, certo, perché recluso nell’hotel Campo Imperatore sul Gran Sasso, ma pur sempre disabilitato a operare sul campo. Badoglio si mise al lavoro per stipulare un accordo con gli Alleati poiché il peso del conflitto era diventato insostenibile. L’8 settembre si diede l’annuncio dell’armistizio firmato dall’Italia. Tutto parrebbe concludersi così, con un colpo di mano, esattamente com’era iniziato vent’anni prima con la marcia su Roma.
Invece, tutto doveva ancora cominciare.
Ormai era troppo tardi per tirarsi fuori causa: il teatro italiano era diventato un fronte aperto di guerra fra i tedeschi e gli americani, intenti ad aprirsi un varco verso il cuore dell’Europa.
I nazisti decisero quindi di liberare Mussolini: non per gratitudine o pietà, ma per farne il loro pupazzo. In quella figura pallida e impotente vi era ben poco ormai del leader carismatico che fu. Ancora frastornato per il tradimento dei fedelissimi, il duce aveva smesso di sedurre le folle. I tedeschi occuparono stabilmente l’Italia centro-settentrionale, costringendo il re e il governo a un’improbabile fuga nel meridione, prima a Brindisi e poi a Salerno. Lo stato fantoccio che ne uscì venne denominato Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.) con sede del governo a Salò, sul lago di Garda. Del regime vi erano solo i gendarmi e le uniformi: la nebbia della gloria e della retorica si era diradata del tutto.
In mezzo a questi avvenimenti i cittadini italiani si ritrovarono in mezzo a due fuochi, intrusi in una terra che non gli apparteneva più.
È in questo contesto che nacque il fenomeno della Resistenza, armata e civile; fenomeno di cui oggi, 25 aprile, festeggiamo il più alto successo: la Liberazione dalle truppe nemiche. Già pochi giorni dopo l’insediamento di Badoglio si erano formati in tutta Italia dei nuclei armati volontari; il 9 settembre nacque il CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale, l’organizzazione che coordinava tutte le attività legate alla guerra partigiana. Tornarono in campo anche i partiti, estromessi durante il regime: la loro azione si svolse sia sui binari della lotta armata, sia su quelli dell’attività politica. Il Partito comunista fu sicuramente il più abile ad accaparrarsi la scena: nel novembre del ‘43 fondò le Brigate Garibaldi e i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) rispettivamente per l’azione partigiana e per la guerriglia urbana.
Togliatti, di ritorno dalla Russia, tirò le fila dei suoi inserendoli nell’alveo delle forze riconosciute dal governo centrale: a differenza della vicina Jugoslavia, infatti, in Italia il leader del PCI troncò sul nascere qualsiasi tentativo rivoluzionario, favorendo l’inserimento del partito all’interno del nuovo governo Badoglio (aprile 1944) con le altre forze del CLN.
Nel frattempo anche i socialisti e i membri del Partito d’Azione organizzarono i loro gruppi armati: nacquero così le Brigate Matteotti e le Brigate Giustizia e Libertà, in onore di Carlo Rosselli.
La lotta armata si sviluppò soprattutto a nord e nel centro Italia: da una parte gli Alleati, dall’altra i nazisti supportati dalla guardia repubblicana e in mezzo i partigiani.
I ragazzi delle annate ‘24, ‘25 e ‘26 vennero richiamati per rimpolpare le fila dell’esercito di Salò, ma molti si diedero alla macchia, unendosi ai gruppi partigiani.
Da parte degli Alleati il rapporto con la Resistenza fu abbastanza controverso: i comandi americani e britannici non vedevano di buon occhio queste bande considerate spesso indisciplinate e senza leader cui fare riferimento.
Spesso gli Alleati consideravano i gruppi armati della Resistenza soprattutto come una gatta in più da pelare. Dall’altra parte della barricata i nazisti avevano il totale controllo sui territori che formalmente appartenevano alla repubblica di Salò: l’Italia ormai era un paese occupato, non più un alleato e le rappresaglie erano all’ordine del giorno. Interi borghi – come Boves nel cuneese o Marzabotto in provincia di Bologna- furono rasi al suolo quali atti dimostrativi della forza militare del Terzo Reich; non solo attacchi ai partigiani, ma anche alla popolazione civile.
La prima grande città a essere liberata fu Roma, nel giugno del 1944. A essa seguì Firenze, nel mese di agosto. La linea gotica (il confine che dalla Versilia a Rimini separava le due Italie) venne sfondata con questa ultima avanzata.
L’entusiasmo partigiano fu, però, scosso sul nascere da un proclama alla radio del generale britannico Alexander. Con esso il comando alleato invitava i partigiani a deporre le armi, a ritirarsi: alla liberazione dell’Italia ci avrebbe pensato l’esercito angloamericano. Fu un colpo durissimo per il morale della Resistenza, ma non solo: implicitamente si avvisavano i partigiani che non sarebbero più giunti rifornimenti alle loro linee.
Quello di sentirsi degli intrusi fu un sentimento che accompagnò gli italiani lungo tutto il conflitto. Nel 1940, anno dell’entrata in guerra dell’Italia, Mussolini era conscio dell’inadeguatezza militare e psicologica del suo popolo, ma non resistette alla suggestione di sedersi da vincitore al tavolo della pace che secondo le previsioni avrebbe dovuto aver luogo di lì a pochi mesi, giusto il tempo di procurarsi “qualche migliaio di morti”.
I caduti raggiunsero in fretta la cifra necessaria, per poi superarla di gran lunga; ma della pace non vi fu traccia. Dopo l’armistizio le condizioni non erano cambiate, anzi ora era in Italia che si combatteva e tutti, volenti o nolenti, furono coinvolti nel conflitto.
Intrusi a casa propria, fra incudine e martello.
Questa strana guerra civile si protrasse fino all’aprile del 1945: in quell’inverno numerosi scioperi in Lombardia e Piemonte avevano dato dei pericolosi segnali alla reggenza nazifascista. Il popolo era stanco di combattere. Stanco e stordito da un conflitto che mai gli era appartenuto. Uno scherzo di cattivo gusto sfuggito di mano.
Salò, da sempre preda dei tedeschi e dei fascisti estremisti, aveva le ore contate. L’ex-duce tenne il suo ultimo discorso pubblico a Milano, al Teatro Lirico, il 15 dicembre 1944; non era più il tempo delle piazze brulicanti.
Il 5 aprile ebbe inizio l’ultima (e decisiva) offensiva alleata: a nulla erano valsi i tentativi di mediazione di Mussolini, che tramite il cardinale Schuster di Milano aveva cercato di trattare una resa dignitosa. Fra il 20 e il 25 aprile città come Bologna, Torino e Genova vennero liberate o insorsero spontaneamente; nel capoluogo ligure la battaglia si protrasse fino al 28, quando l’intervento degli Alleati risolse la questione. Il 25 aprile fu anche il giorno della fuga di Mussolini e Claretta Petacci; tre giorni dopo vennero catturati e fucilati.
La guerra d’Italia era finita. Quella politica doveva ancora iniziare. I venti mesi di occupazione avevano spaccato il Paese sotto ogni punto di vista: la Liberazione, difatti, aveva cancellato ogni legittimità dello stato sabaudo e della casa reale, che in questo delicato frangente si dimostrò totalmente inadeguata. Della fantomatica identità nazionale italiana -per la cui creazione Mussolini aveva speso energie, tempo e denaro- rimaneva poco o nulla.
Gli italiani erano sorti per liberare le proprie case, le proprie città; non la loro nazione, perché in fondo quella non gli apparteneva, né mai gli era appartenuta.
Erano liberi ormai, ma nonostante tutto ancora intrusi.