Del: 25 Aprile 2017 Di: Greta Fossati Commenti: 0
 Negli anni ’80 due uomini, entrambi grandi scrittori, decisero di incontrarsi e conversare. A spingerli nel cominciare questo percorso c’era la voglia di conoscere l’altro in modo diretto, desiderio accostato alla costruzione di un lungo filo di dialoghi su temi concordati precedentemente assieme, come i luoghi e l’orario ove le sedute avrebbero avuto spazio.
I due uomini assunsero, nelle conversazioni, i ruoli di intervistatore ed intervistato. Il primo era Ferdinando Camon, il secondo Primo Levi. I due cominciarono a delineare una scaletta di argomenti. Concordarono infatti che avrebbero discorso del concetto della colpa, di Israele, del legame che Levi ebbe con la chimica e l’inevitabile base e punto in cui i due si soffermarono ad ogni seduta: i lager e l’esperienza diretta che Levi ebbe di questa in prima persona.
Il primo incontro avvenne nel 1982, l’ultimo nel 1986 in una domenica di fine maggio. Luogo prescelto per tutte le visite fu Torino, città natale dell’intervistato, che chiese a Camon di incontrarsi in ristoranti e luoghi limitrofi al centro, fra cui un albergo vicino alla stazione. L’ultimo incontro, invece, fu a casa di Levi.
Al momento delle conversazioni, Levi ha già scritto le parole che l’hanno consacrato a testimonianza più importante contro la barbarie nazista, ha già rivelato gli orrori subiti e le frasi che l’hanno reso immortale ai nostri occhi. A riguardo, durante un’intervista, affermò:

«Ho scritto perché sentivo il bisogno di scrivere. Se lei mi chiede di andare più in là e di trovare da dove nasca questo bisogno io non so rispondere. L’atto di scrivere equivale per me allo stendermi sul divano di Freud. Sentivo un bisogno così prepotente di raccontare, che raccontavo a voce».

Negli incontri con Camon, Levi pare affermare la voglia di costituirsi come uomo e chiede quasi aiuto all’intervistatore, affinchè lo aiuti in questo. Anche perchè il profilo di studioso ed importante chimico ha già provveduto da sé a riportarlo nei libri La chiave a stella ed Il sistema periodico.
Ecco che quindi il primo incontro comincia proprio ad esplorare la biografia dello scrittore, nato nel 1919, momento in cui veniva fondato in Germania il partito nazionalsocialista e i fasci di combattimento in Italia, presagi a cui, inizialmente, non veniva data voce nella casa dell’autore e dai suoi familiari.
I presentimenti arrivano quando le cose erano ormai tangibili ed evidenti. Levi prova ad unirsi ad un neogruppo di partigiani, ma viene riconosciuto in poco tempo e condannato per una duplice colpa: quello di essere ebreo e partigiano. Decide allora di consegnarsi e così comincia il «lavoro» nel lager, come egli stesso lo definisce.
Camon, nel suo ruolo, pone le domande più incidenti e difficili per un sopravvissuto, questioni a cui, nelle pagine, Levi pare rispondere subito senza quasi esitazioni.
«Dopo il ritorno da Auschwitz avevo un gran bisogno di parlare, credo di aver subito una maturazione avendo avuto la fortuna di sopravvivere. Non si tratta di forza, ma di fortuna: non si può vincere con le proprie forze un lager. Sono stato fortunato: per essere stato chimico, per aver incontrato un muratore che mi dava da mangiare, per aver superato le difficoltà del linguaggio. Mi sono ammalato una sola volta, alla fine, e anche questa è stata una fortuna».
Camon chiede al suo intervistato del rapporto che ha con la Germania ed i tedeschi della loro attualità, e del perché, a suo parere, Hitler registrò il consenso che ebbe in Germania. Domande a cui Levi risponde anche: «Le cerimonie naziste, i giuramenti, le adunate hanno innegabilmente fascino, esercitano un richiamo. Non per noi, naturalmente, non per i segnati».
O ancora: «Sì, la manipolazione della massa è stata usata per la prima volta dai fascisti, nazisti e sovietici, prima non si poteva: prima non c’erano le masse. C’era qualche migliaio di persone, che ascoltavano l’oratore riunite in piazza».
Camon vedeva in Levi il chimico ed il letterario che era, lo scrittore concentrazionario e scientifico-naturale. «Primo Levi era un meraviglioso conversatore: preciso, scrupoloso, con frequenti e pertinenti associazioni di memoria». Ne elogiava l’aspetto mite perché «non gridava, non insultava né accusava, voleva molto di più: far gridare».
Arriva in modo diretto, allora, lo sgomento con il quale l’intervistatore accoglie la notizia del suicidio di Levi. L’ultimo incontro era avvenuto solo pochi mesi prima, l’ultima lettera gli arrivò addirittura giorni dopo aver appreso la notizia. Gli incontri si chiusero con l’affermazione di Levi «Auschwitz c’è, è allora impossibile che Dio esista». A matita, un’aggiunta: «Non trovo una soluzione al dilemma, la cerco, ma non la trovo».
Greta Fossati
Laureanda in Beni Culturali e tata part-time. Penso ai temi degli articoli mentre preparo torte ed improbabili frullati Detox. Da grande mi piacerebbe girare per il mondo e scrivere reportage.

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