Ci sono voluti ben sedici anni perché alle sei vittime di torture da parte della polizia nella caserma Bolzaneto di Genova, durante il G8 del 2001, fosse riconosciuta giustizia. Sedici anni perché il governo facesse l’atto dovuto da subito di ammettere i propri torti. Sedici anni per il riconoscimento di danni morali e materiali alle vittime di una violenza che non conosce giustificazione e ancora oggi provoca molta vergogna.
Vergogna soprattutto per le poche condanne assegnate a chi commise quelle atrocità (molte passarono in prescrizione) e il tentativo dello Stato, primo colpevole di tutto ciò, di dilungare e spalmare i tempi, senza domandarsi nemmeno un attimo se fosse il caso di chiedere scusa e assumersi le proprie responsabilità. Decisivo è stato l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo che, a seguito del riconoscimento di danni morali e fisici per 175mila euro a Tanja W. da parte del tribunale civile, nell’ambito dei fatti di Bolzaneto, che, dopo aver condannato l’Italia nel 2015 per l’assenza del reato di tortura in merito ai fatti della Diaz, stava per fare lo stesso con Bolzaneto. Nessun tipo di impegno da parte dell’Italia, fatta esclusione per quanti tra giudici e avvocati si sono impegnati per fare giustizia, ma una triste figura da scolaretti che, ormai incapaci di temporeggiare, si vedono costretti a fare ammenda. Ammenda che insieme al patteggiamento per le sei vittime Taline Ender, Ester Percivati, Giuseppe Azzolina, Carlos Balado, Mohamed Tabbach e Anna Kutschau rappresenta un passo avanti, ma non certo la tanto attesa “buona notizia”.
Il problema principale infatti è che in Italia il reato di tortura non esiste e non sembra nemmeno trattarsi di un’approvazione dietro l’angolo.
Il nostro governo ha riconosciuto «l’assenza di leggi adeguate» e ha espresso una volontà di impegno ulteriore, ossia
«adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre un’indagine efficace e l’esistenza di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura».
L’impossibilità di punire seriamente chi si è macchiato di tale reato, risiede in alcune lacune normative strutturali. Esiste, lo sappiamo dai “fatti di Genova e della Diaz”, la possibilità per i giudici di accertare i fatti, non senza numerosi ostacoli. Il fulcro della questione è proprio quello di punire, secondo quanto impongono non solo la Convenzione europea e, in modo ancora più esplicito, la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, ratificata dall’Italia nel 1989. È sulla punizione adeguata di chi commette atti di tortura che si combatte, da decenni, nel nostro paese una grande battaglia politica.
Su questo terreno si scontrano coloro che ritengono gli appartenenti alle forze di polizia in dovere di proteggersi sempre e comunque, anche se autori di violazioni dei diritti umani, e chi al contrario ritiene che tutto ciò sia inammissibile, in uno stato di diritto nel quale la polizia trova la propria prima ragion d’essere nella protezione dei cittadini. Nel frattempo, mentre questa battaglia sembra non vedere una fine, i giudici hanno fatto ricorso ad ogni strumento in loro possesso: reati generici come abuso di ufficio e lesioni, puniti con pene lievi, spesso cadute in prescrizione. Con i risultati che tutti conosciamo.
Speriamo dunque che il piccolo passo in avanti fatto dal nostro governo nel riconoscere l’ inadeguatezza delle nostre leggi, prendendo l’impegno ad introdurre il reato di tortura, sia solo l’inizio di una grande battaglia per la giustizia.