Quando Fendi, la nota casa di moda italiana, scelse la Fontana di Trevi come passerella per le sue modelle, Roma acconsentì. Quando Gucci chiese a Londra il permesso di sfilare nel chiostro dell’Abbazia di Westminster, gli inglesi risposero sì.
Non ha detto sì invece Atene, che all’unanimità si è schierata contro qualsiasi manifestazione di moda sull’Acropoli. A proporlo al KAS, laCommissione archeologica della Grecia, era stata proprio Gucci, che voleva presentare a giugno una Cruise Collection nello spazio tra i Propilei e il Partenone.
Vagliando gli articoli dei più diffusi quotidiani italiani, le informazioni a riguardo sono poco chiare e possono portare a fraintendimenti. Le fonti italiane consultate sono rispettivamente Il Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa.
Da uno schietto “no” ecco che si sono costruite fantasiose architetture sulla vicenda. Molti i punti su cui le testate concordano, altrettante, le divergenze.
Nessun problema sulle risposte “ufficiali” della Grecia che, secondo la maggior parte delle fonti, sono state: “Atene non è in vendita”, “Sarebbe umiliante accettare eventi di questo tipo”, “Il valore e il carattere dell’Acropoli è incompatibile con un evento di questo tipo” , “Il Partenone non ha bisogno di pubblicità”.
Le divergenze si concentrano sull’ipotetica cifra proposta in cambio di una risposta affermativa di Atene. Secondo alcuni l’affitto del Partenone è stato valutato 2 milioni di euro, secondo altri addirittura 56 milioni. Non è una differenza da poco. Notizie nebulose anche sulla proposta stessa. Gucci nega di aver parlato in prima battuta di soldi, nella fase iniziale della proposta e dichiara che il denaro sarebbe stato destinato alla ristrutturazione dell’Acropoli. La tutela del patrimonio archeologico invita alla massima cautela e questo era stato messo in conto.
Ora, come una sfilata di moda del calibro di Gucci possa umiliare un’intera nazione non è molto chiaro; per comprenderlo, bisognerebbe risalire alla realtà culturale della Grecia antica e alla sua attuale situazione economica.
In crisi dal 2009, per far fronte all’esorbitante debito pubblico, lo stato greco ha iniziato a vendere le proprie isole. Costretta a tagli drastici alle pensioni, all’eliminazione di privilegi di varia natura, di cui usufruiva soprattutto l’apparato burocratico statale, si è impegnata a ridurre le spese correnti per tornare in tempi brevi a un pareggio del bilancio.
Un no a un’offerta di denaro è un “no” in onore di un antico e glorioso passato e un “no” alla mercificazione della cultura, in un paese dove a tutto è stato messo un prezzo, insomma un disperato scatto di orgoglio nazionale.
Motivazioni politico-economiche quindi, piuttosto che culturali, dal momento che già una volta il Partenone fece da sfondo a Dior nel 1951. E a queste rivendicazioni Atene ha risposto con un secco: ”Erano altri tempi”.
Si poteva trovare un compromesso. Non si è nemmeno tentato.
Non convince invece l’ideologia del “no” basata sulla preminenza di una cultura su un’altra, in questo caso la presunta superiorità della cultura classica su quella contemporanea. E’ questa, un’ideologia ricca di pregiudizi e vittima di una logica semplicistica, che vede ancora una netta divisione tra cultura alta e bassa, cultura da “salvare” e cultura “che non è cultura”.
Questa falsa cultura, come si può leggere tra le righe nelle risposte piccate di Atene a Gucci, è anche e soprattutto la moda.
Ed è vero. La moda è un fenomeno sociale e culturale complesso di cui ancora si cerca di tracciare un profilo ben definito. La proliferazione delle arti e dei significati rende difficile una sua definizione. Essa si colloca nel mezzo, tra una cultura popolare e una cultura d’élite.
Se entriamo nelle logiche del mercato poi, la moda resta ancora di più nella sua ambiguità, tra cultura e arte, tra economia e commercio. Così la sfilata: è spettacolo per il pubblico e allo stesso tempo vetrina per i compratori.
Da un lato, la moda come paladina dei diritti umani vanta collaborazioni con associazioni quali UNICEF, UN Women o manifestazioni quali Convivio che sostiene la lotta contro l’Aids. Esiste ed è sempre più diffusa la moda etica, con la quale si cerca di portare in primo piano i diritti dei lavoratori e il rispetto per l’ambiente. Emblematica poi, la sfilata ospitata negli spazi di Macao, nel 2016, per finanziare la resistenza e l’opposizione al governo fascista di Erdoğan in Turchia.
Non a caso Macao, in un comunicato, aveva così risposto a quanti erano perplessi:
se a molti sembra scandaloso affittare uno spazio occupato al capitale, noi vogliamo lo scandalo: usare il capitale, usare le sue risorse e la sua visibilità, piegarlo ai nostri obiettivi.
Dall’altro invece, la moda spietata, che sfrutta donne e bambini per il Dio Profitto, moda che se ne approfitta, che si serve dei più indigenti per arricchirsi, acuisce le ingiustizie, speculando sui migranti e sui rifugiati, ad esempio siriani, perché disperati e in fuga dalla guerra, gli stessi che l’altro lato della moda cerca di difendere.
Se nel primo caso la moda è in una posizione che realizza i valori ”alti” e “impegnati” della cultura, più in generale i valori della democrazia di libertà e uguaglianza, nel secondo caso, si perde la direzione etica e con quella anche tutto il resto.
Guardare all’estetica senza un’etica, in qualsiasi campo, conduce a un vuoto di senso. Il ripiegamento pericoloso dell’arte e della cultura in se stessa, incapace di comunicare all’uomo, di capirlo, lo distrugge.
Dobbiamo forse leggere così il rifiuto di Atene, che si è sentita in dovere, in nome di una millenaria tradizione, riconosciuta universalmente, di dire no. Ma cosa sarebbe successo se la Grecia fosse stata stabile economicamente? Non sottovalutiamo le diverse prospettive.
Se guardiamo con occhi diversi il fenomeno moda, vedremo che essa non è estranea al Partenone, né all’Acropoli, né alla tradizione greca più antica. L’arte tessile svolgeva nell’antica Grecia un ruolo fondamentale, quasi sacrale.
Le Panatenee (grandi, ogni quattro anni e piccole una volta all’anno) dovevano svolgersi per onorare la potenza della città di Atene e avvenivano al termine della mietitura. Il fulcro della festa è la processione con la consegna alla statua di Atena del peplo della dea, la peploforia. Il peplo era l’abito nazionale delle donne dell’antica Grecia.
Il lavoro al peplo, che era ricamato durante l’anno dalle ragazze e dalle donne ateniesi, era dedicato a Efesto e ad Atene Ergane (“industriosa”). Atena è patrona di artisti ed artigiani ed ideatrice dei lavori femminili come la filatura e la tessitura.
Durante la peploforia le donne trasportavano il peplo per la città fino all’agorà per poi riporlo nelle mani di un sacerdote, che probabilmente aveva il compito di “vestire” la statua con il nuovo peplo. I fregi del Partenone, oggi al British Museum, recano la rappresentazione della peploforia. Quello stesso Partenone, simbolo di cultura, si orna di un vestito per consegnare al pubblico la sua storia.
La classicità è la culla della cultura, rappresenta le nostre origini. Paradossalmente è la civiltà greca ad aver inventato l’estetica, intesa come filosofia dell’arte. Deriva dal verbo αἰσθάνομαι che significa “percepire attraverso i sensi”. Estetica dunque significherebbe “sensazione”, sensibilità catturata grazie al corpo, il nostro primo mezzo di espressione nel mondo.
La moda è una discendente della classicità, seppur alla lontana. Per meglio comprendere il nostro tempo è necessario conoscere il passato. Le radici di quest’ultimo devono spingersi ancor più in profondità, se vogliono che i frutti del proprio albero maturino. E’ necessario dunque apertura e dialogo.
Probabilmente Gucci non si aspettava un rifiuto e il no di Atene costringe non solo il mondo della moda a riflettere su se stessa, ma anche ogni ambito della cultura. Guardare insieme nella stessa direzione, pur nella diversità, dovrebbe essere l’obiettivo cui aspirare.