Del: 24 Maggio 2017 Di: Elena Cirla Commenti: 1

Con diciotto voti a favore, undici contrari e sei astenuti, ieri alle 16.36 il Senato accademico della Statale ha deliberato sulla questione del numero chiuso nella facoltà di Studi Umanistici. E anche se il numero chiuso – che sarebbe più corretto definire “programmato” – non s’aveva da fare, in molti hanno spinto perché la proposta passasse, rettore in primis. Già settimana scorsa, durante la prima seduta del Senato, un presidio organizzato dagli studenti aveva cercato di fermare la decisione, che, effettivamente, non era stata presa proprio a causa dell’interruzione della seduta. Ogni qualvolta il Senato viene interrotto ed esterni entrano durante la seduta, infatti, essa viene automaticamente annullata e ogni questione posticipata. In modo pacifico, gli studenti avevano fatto leva proprio su questo. Mossa che ieri ha spinto il rettore Vago a barricarsi in rettorato per evitare ulteriori interruzioni.

Che la decisione del numero chiuso passasse era già nell’aria e molti se lo aspettavano, nonostante la numerosa partecipazione di studenti, professori, dottorandi e personale amministrativo. Nemmeno per la riforma degli appelli si era registrata una così forte presenza. Tuttavia, né i numeri dei presidianti né il coinvolgimento della stampa milanese (ma non solo) sono bastati per sensibilizzare abbastanza su un problema che è più grande di quanto possa sembrare.

La mobilitazione studentesca, inoltre, non solo non è stata abbracciata da molti, ma è anche stata incompresa e a torto identificata come «una rivoluzione per il semplice gusto della rivoluzione». Tanta amarezza rimane negli sguardi di chi, invece, nelle ultime settimane si è speso in una ricerca attenta e puntigliosa di ogni norma e decreto, pur di far valere la logica del dialogo su quella dell’oppressione.

La portata storica dell’evento non ha precedenti.

Non era mai accaduto prima d’ora in nessun Ateneo italiano che il rettore scavalcasse i direttori dei Dipartimenti e prendesse una decisione così importante in così poco tempo, senza consultare nessuno e imponendo la propria autorità. A questo proposito, c’è chi punta il dito contro la riforma Gelmini e non a torto.

La decisione, come già ribadito, è stata presa nell’arco di pochi giorni. A questo proposito, si rivela particolarmente esplicativo un paragone: nella facoltà di Lingue e Letterature straniere, che ha introdotto il numero chiuso lo scorso settembre, la scelta ha richiesto ben tre anni di discussioni, che hanno portato ad una decisione sofferta ma, in quel caso, necessaria. Ci si chiede perché tutta questa fretta a Studi Umanistici, da sempre facoltà numerosa ma mai, per questo motivo, demonizzata come in questi giorni. Una facoltà che, per sua natura, dovrebbe puntare all’inclusione piuttosto che all’esclusione. Tanto più che parliamo di un contesto di università pubblica, che, per citare se stessa – la frase è inviata in calce ad ogni email – si professa “libera, pubblica, aperta”. Di aperto, però, in questi giorni c’è ben poco.

Ieri il tutto è stato aggravato dalla mozione proposta dal rettore di anticipare il provvedimento all’anno prossimo, quando inizialmente sembrava fosse stato raggiunto un compromesso per cui, qualora la mozione fosse passata, essa sarebbe entrata in vigore dall’anno accademico 2018/2019.

Pare che dietro a tutta questa fretta, comunque, ci siano interessi molto pratici e riconducibili ai 300 milioni di euro stanziati per l’ex area Expo, in cui si trasferiranno le facoltà scientifiche, che andranno a costruire un polo di ricerca finanziato per la maggior parte da privati. Le giustificazioni dal rettore per motivare la necessità del numero chiuso sono tante, ma due in particolare spiccano fra tutte: in primo luogo, il numero chiuso garantirebbe una più elevata qualità e, in secondo luogo, permetterebbe di evitare un eccesso di laureati, motivo principe dell’intasamento del mercato del lavoro.

Affermazioni che rimangono un mistero, visto e considerato che nessuno studio ha mai confermato la correlazione quantità degli studenti–qualità dell’insegnamento e nemmeno ha fornito percentuali valide di numero di studenti iscritti per posti di lavoro. Tanto più che l’Italia è al penultimo posto nelle graduatorie europee per numero di laureati, per cui, se tutto andasse come sostiene Vago, in nessun angolo d’Europa un giovane umanista troverebbe lavoro. Discorso paradossale, oltre che fasullo.

Ma l’insensatezza della decisione presa dal magnifico rettore non si ferma qui: ci si chiede come sia possibile che, nella facoltà di Studi Umanistici più grande d’Europa, si voglia impedire a giovani menti di formarsi e imparare. Perché, come è stato ripetuto più e più volte in occasione delle proteste e dei presidi, una persona istruita, anche se nella materia con meno possibilità di impiego, avrà sicuramente più mezzi per affrontare la società di oggi. Nella logica dell’esclusione forzata, da settembre i posti disponibili saranno molti meno rispetto a questi anni: a Filosofia 530, a Lettere 550, a Beni Culturali 500, a Geografia 230 e a Storia 480. Numeri che intimoriscono e rendono ancora più difficoltoso il dialogo.

Elena Cirla
Studentessa di Lettere Moderne, classe 1994.
Amante dell'autunno, dei viaggi e del vino rosso.

Commenta