Del: 3 Giugno 2017 Di: Sheila Khan Commenti: 1

Camilla Cederna nasce, cresce e muore a Milano (1911 – 1997). È saggista e scrittrice, ma soprattutto giornalista, dalla scrittura tagliente e ironica, attenta alla cronaca mondana e alla satira di costume, quanto alle vicende italiane che hanno percorso l’Italia in quegli anni ed è stata una delle prime donne giornaliste con un peso notevole nel mondo dell’informazione. Ma andiamo con ordine.

Camilla Cederna nasce da Giulio Cederna, calciatore e socio fondatore del Milan, e da Ersilia Gabba, una delle prime donne laureate in germanistica. Una coppia all’apparenza mal assortita, ma accomunata da ideali antifascisti e garibaldini che influenzarono molto Camilla.
Camilla segue le orme della madre, laureandosi in Letteratura Latina con una tesi dal titolo “Prediche contro il lusso delle donne dai filosofi greci ai Padri della chiesa”, dove emerge fin da subito il suo interesse critico per l’aspetto più mondano della vita, soprattutto delle donne.

Il suo esordio giornalistico avviene nel 1939 su “L’Ambrosiano”, giornale milanese vicino al Partito Nazionale Fascista, con un articolo dal titolo Moda nera, dove prende in giro le uniformi delle donne fasciste; per questo articolo viene accusata di aver messo alla gogna madri e mogli degli eroi della guerra, e quindi condannata a undici anni di carcere che, per fortuna, non scontò mai.

Dopo questa prima esperienza passa all’”Europeo”, e poi all’”Espresso” (nel 1956), dove fonderà una sua rubrica personale: Il lato debole.

La moda diventa il suo cavallo di battaglia, non tanto per il suo spiccato interesse, non tanto per la sua scrittura arguta e ironica che ben si adattava ad articoli di costume, ma perché alle donne spettava questo, agli uomini “le cose serie”: così era il giornalismo di quegli anni.

Camilla era una donna sempre in giro, con penna e taccuino, nei luoghi più chic e più radical-chic della città, per osservare con occhio critico e curioso la borghesia che avrebbe trasformato la Milano del dopoguerra nella Milano da bere. Nella sua rubrica descrive con precisione e ironia i modi, le manie e i cortocircuiti di una borghesia che vuole apparire, che vuole avere tutto e subito. Alcuni articoli a leggerli sembrano scritti oggi, come questo Prepararsi all’istantanea:

Avete mai osservato certe bellissime sulla spiaggia, al ristorante, negli intervalli di un concerto, al momento di salire in macchina, o con un piede usato come grazioso scandaglio per l’acqua del mare, improvvisamente irrigidirsi come se fossero trafitte, stare erette come se avessero l’ernia al disco, schiudere la bocca come davanti ai tesori di Golconda, un piede davanti all’altro come sull’asse di equilibrio? Che faranno? Che avranno visto? Quali rimembranze le folgorano? Di quali traumi sono vittime? Tranquillizziamoci, hanno solo adocchiato “il fotografo”. Le furbone sanno benissimo che la loro effigie sarà riprodotta sulle riviste, e che “l’istantanea della signora X” ai bagni, in ridotto, in una cave farà esclamare al pubblico sprovveduto: “Com’è bella anche quando sa di non essere vista, che classe, che portamento, com’è spontanea!”.
Impariamo qualcuno dei loro trucchi. Mai posare completamente di faccia, né di profilo assoluto, ma soltanto di tre quarti. Sedute, allunghiamo il collo a più non posso, e teniamo le mani in grembo (posizione che slancia la figura). Non facciamoci mai fotografare con il rossetto, né con gli occhi sottolineati, né con il cerone, né con lo smalto alle unghie. Socchiudiamo un poco le labbra, giriamo un poco, solo un poco, la testa, come se parlassimo con l’angelo custode. Facciamo di tutto per appoggiarci ad un fondale grigio. I bambini guardiamoli con interesse come se fossero nostri. Il marito va fissato con curiosità all’altezza del secondo bottone della camicia, come se stesse per staccarsi.

Se sostituiamo la parola istantanea con “selfie”, riviste con “social network” e bambini con “gattini” abbiamo un bellissimo e divertente articolo su come ci facciamo fotografare, oltre a ottenere intramontabili consigli su come venire bene in foto.

Ma poi, in quel 12 dicembre 1969, accadde un fatto che sconvolse Milano e la carriera di Camilla: la bomba di Piazza Fontana.

Allora Camilla fa una scelta: decide di abbandonare il costume e dedicarsi alla cronaca, per diventarne testimone intransigente e spregiudicato, per fare “le cose serie” che spettavano agli uomini.

Viene mandata a Piazza Fontana subito dopo l’esplosione della bomba, seguendo in tempo reale tutta la vicenda: l’arrivo dei soccorsi, della polizia, dei giornalisti, dei familiari e dei semplici curiosi. Viene profondamente colpita da quel sangue rosso sui marciapiedi, dalla folla e soprattutto dal mistero intorno alla vicenda, tanto che fa fatica a scrivere e a dormire. L’articolo alla fine esce su l’”Espresso” il 21 dicembre 1969, e salta subito all’occhio una scrittura romanzata, fortemente descrittiva, ma sempre polemica, come lo erano i suoi articoli di costume.
Non fa in tempo a riprendersi dallo shock e dalla fatica del tragico evento di Piazza Fontana, che qualche notte dopo la chiamano dalla redazione Corrado Stajano e Giampaolo Pansa: «Vieni Camilla, un uomo si è buttato da una finestra della questura, non farci aspettare, andiamo a dare un’occhiata». Si tratta di Giuseppe Pinelli, l’anarchico distratto caduto giù dalla finestra e su cui Dario Fo ha scritto una mirabile commedia, Morte accidentale di un anarchico. Camilla, anche in questo caso, è in prima linea per denunciare e cercare un colpevole, che trova nel commissario Luigi Calabresi, contro cui scriverà una lettera aperta firmata da più di 800 persone.

Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione.
Oggi come ieri – quando denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida, e l’indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati – il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione.
Una ricusazione di coscienza – che non ha minor legittimità di quella di diritto – rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini.

In seguito a questa lettera aperta ci furono tante accuse: Vittorio Sgarbi definì Camilla come “mandante dell’omicidio Calabresi perché ha scritto un libro (Pinelli: una finestra sulla strage, NdR) contro di lui, incriminandolo come se fosse stato l’assassino del famoso anarchico Pinelli, mentre Indro Montanelli la accusò di essere “inebriata” per il passaggio dalla moda alla cronaca e di essere innamorata degli anarchici con toni al limite dell’offensivo (e ai quali Camilla rispose a tono):

Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga.

E non è finita qui: dopo Luigi Calabresi, Camilla accuserà l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone e i suoi figli. Questa volta però l’accusa le costò una multa salatissima e il ritiro dal commercio del libro Giovanni Leone: la carriera di un presidente, in cui raccoglie tutti gli articoli contro di lui.

Il tratto distintivo di tutta la sua carriera è stata l’indignazione: indignazione per la borghesia, per i segreti di stato, per la corruzione. Camilla Cederna è stata una delle prime donne a spingersi così in fondo nel giornalismo, aprendo la possibilità a tutte le donne di prendere parte non solo alle riviste patinate, ma anche al giornalismo più impegnato e impegnativo.

Sheila Khan

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