Mattia Albano
Non si sono fatte attendere le polemiche nei confronti dell’UDU (Unione degli Universitari, il sindacato degli studenti) dopo la vittoria della battaglia contro il numero chiuso per le facoltà umanistiche della Statale di Milano, certificata dal provvedimento cautelare del TAR Lazio del 30.08.2017: dalle polemiche personali contro gli studenti promotori di questa battaglia, i quali avrebbero la colpa di battersi per un modello universitario funzionale ai meno capaci e volenterosi, alle polemiche più serie volte a sollevare dubbi e perplessità sull’effettiva capacità dell’università italiana, di reggere un sistema privo di filtri per i potenziali iscritti. Sulle prime, per ovvie ragioni, eviteremo di soffermarci. Vale invece la pena rispondere alle seconde, in modo tale da avere un quadro più chiaro della situazione reale e delle possibili soluzioni.
“Mancano spazi, strutture e fondi. Dare a tutti una possibilità significa non aiutare di fatto nessuno”.
Frasi di questa natura echeggiano continuamente nel dibattito pubblico. Effettivamente c’è un dato analitico di realtà in queste affermazioni in quanto, non in pochi casi, negli atenei italiani le aule sono sovraffollate ed il personale non sempre è adeguato, numericamente parlando, per rispondere alle esigenze formative dei vari studenti. A non essere corrette però, sono le conclusioni.
Il problema della mancanza di fondi e di strutture andrebbe risolto, infatti, creando nuovi spazi e nuove sedi.
Ed invece si preferisce considerare come un dato ineluttabile l’attuale contesto, cercando di modellare il sistema universitario sulla base di quest’ultimo, complice probabilmente una diffusa rassegnazione per gli scarsi risultati prodotti dalle proteste degli ultimi decenni contro la riduzione costante dei finanziamenti all’università pubblica. Ma facendo così, si entra in un circolo vizioso poiché, più l’asticella si abbassa, e più in futuro si accetteranno condizioni sempre meno accettabili fino a quando, un bel giorno, l’università italiana diventerà davvero un privilegio per pochi. Un luogo raggiungibile solo dai figli delle famiglie più facoltose e da quelle pochissime super eccellenze che riusciranno ad ottenere le poche borse di studio disponibili. Un modello insomma contrario ai principi della nostra Costituzione, oltre che contrario ad un’idea moderna di democrazia.
“I test andrebbero perfezionati, ma sono necessari per impedire ad una moltitudine di studenti di rimanere senza un’occupazione”.
Questa convinzione è molto diffusa ma, come per la precedente affermazione, anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un’analisi corretta combinata a delle conclusioni fuorvianti. Il problema degli sbocchi occupazionali andrebbe piuttosto risolto con politiche per la crescita. È chiaro, dieci anni della crisi economico-finanziaria più devastante dopo quella del 1929 hanno spiazzato un po’ tutti. Di fronte ad una situazione così grave per l’occupazione giovanile, migliorata rispetto agli scorsi anni ma pur sempre grave, un argomento del genere fa sicuramente molta presa (soprattutto su quegli studenti provenienti da famiglie di ceto medio-basso). Ciononostante, il problema andrebbe risolto investendo di più in ricerca e innovazione, puntando su una politica pubblica di indirizzo che incentivi lo sviluppo di alcuni settori del mercato che oggi offrono poco dal punto di vista lavorativo, non accettando la situazione data come immodificabile.
Certo, un Paese non può vivere solo di ricercatori, insegnanti, ecc. Ma questo pericolo non c’è.
Infatti, le facoltà che offrono principalmente solo questi sbocchi sono già sensibilmente meno frequentate rispetto alle altre. Questo perché poi, in presenza di settori economici saturi, dei meccanismi di compensazione interni al mercato si vengono comunque a creare. E’ quindi ingiustificato l’allarmismo di qualcuno rispetto a questa problematica.
“Il numero chiuso è indispensabile per garantire, ai più meritevoli, la possibilità di accedere alle professioni più importanti”.
L’ altra grande argomentazione adoperata dai sostenitori del numero chiuso riguarda la questione meritocratica. Secondo l’opinione dei difensori del numero chiuso infatti, la presenza di un test combinata ad un numero di posti limitato garantirebbe l’accesso solo ai migliori, lasciando i meno qualificati fuori dal percorso di studi scelto. Ma anche questa argomentazione appare molto fallace. Per due fondamentali motivi: in primis, perché si tratta di un sistema che prevede l’esclusione matematica di un certo numero di persone, a prescindere dal raggiungimento della soglia minima per la sufficienza. Per amor di chiarezza: è come se in una classe di liceo, alcuni studenti dovessero essere automaticamente bocciati nonostante il conseguimento di voti positivi, solo perché questi ultimi un po’ più bassi rispetto a quelli dei loro compagni. L’ingiustizia di un simile criterio di selezione è evidente. Un corretto criterio di selezione dovrebbe invece dare a tutti, sulla carta, la possibilità di superare la prova. In seconda battuta poi, occorre ribadire che la valutazione dovrebbe basarsi su una pluralità di elementi. Non è un caso, infatti, che le vittorie di molti ricorsi degli studenti delle scuole secondarie di secondo grado siano spesso dovute all’assenza di un giudizio motivato desunto “dagli esiti di un congruo numero di prove effettuate”(articolo 6, comma 2, dell’ordinanza ministeriale n. 92/2007).
L’esito di una singola prova non può certo stabilire chi ha e chi non ha determinati requisiti.
Benché il contesto della scuola superiore sia sicuramente molto diverso da quello universitario, vale la regola di sempre. E cioè che le capacità e le conoscenze di uno studente devono essere valutate dentro il contesto scolastico (quindi dentro l’università). La selezione deve avvenire quindi all’interno del percorso formativo universitario, non prima. Per fare questo è necessario abolire ovunque il numero chiuso. Ed abolirlo non per dare certezze a qualcuno, quanto per dare una possibilità a tutti.