Del: 24 Settembre 2017 Di: Letizia Gianfranceschi Commenti: 0

Foto di Diletta Gianfranceschi

C’erano una volta tre inseparabili sorelle, che in un freddo inverno si persero. Vennero accolte in casa da un cacciatore che le salvò dall’abbandono a cui erano condannate. Le sorelle, per ricambiare l’ospitalità , si divisero i compiti: la più piccola, ormai cresciuta, avrebbe preparato la cena, la mezzana avrebbe fornito le cene future e la più grande non avrebbe mai fatto mancare la farina. Racconta così una favola messicana, che spiega in realtà la milpa, un sistema di coltivazione che consiste nel coltivare insieme il mais dolce, il fagiolo e la zucca. Alla gente del posto lo ha insegnato la madre terra, che il fagiolo nutre il terreno con l’azoto, supportato dai mais, mentre la zucca tiene lontani gli insetti e gli animali ghiotti di mais.

Capita di sentire anche queste storie all’undicesima edizione del Festival della Biodiversità, in programma a Milano dal 14 al 24 settembre. La festa del mais è solo una delle tante iniziative del festival, che si propone di far riscoprire ai cittadini che la conservazione del patrimonio naturale è possibile anche in ambito urbano. Sarebbe piaciuta a Aurelia Josz, fondatrice e ideatrice della prima scuola agraria femminile milanese, a cui è intitolato il Museo Botanico, dove la festa del mais si è svolta con la collaborazione del Consolato generale della Bolivia. Dal Frutteto dei patriarchi, chiamato così perché ospita 27 specie di piante autoctone della Lombardia e dintorni, è facile raggiungere un vero e proprio museo a cielo aperto: il labirinto di cereali e mais.

Prima che gli uomini costruissero i propri idoli d’oro, prima che la ragione diventasse religione, prima ancora che lo diventasse il capitale, prima che qualcuno gridasse che “dio è morto” e con lui tutte le ideologie, c’è stato un tempo in cui gli uomini credevano nel divino della natura. Alcuni ci credono ancora. Nell’America centrale e meridionale il mais è considerato il grano degli dei. La Sara mama, la divina madre del mais (sara è il termine inca che indica il mais), lo avrebbe donato agli uomini. Non l’oro, non l’argento e neanche i minerali di cui questa regione del mondo pure è ricca, ma un cereale che avrebbe dovuto salvarli dalla fame e garantirgli prosperità.

Non sorprende, dunque, che il mais sia stato oggetto di venerazione da lungo tempo.

La Bolivia è il paese con il maggior numero di varietà  di mais: ce ne sono ben 77, distribuite su tutto il territorio nazionale. Qui la vita economica, sociale e religiosa ruota intorno al mais fin dall’epoca dell’impero inca, quando si diffuso il culto della Sara mama e la gente era solita portare le proprie offerte di mais alla dea per tre notti consecutive. L’interno calendario delle festività  era scandito dalle fasi della coltivazione. Ancora oggi, in tutte le occasioni di festa i boliviani bevono la loro elixir dorada: la chicha, la birra ottenuta dalla fermentazione del mais che spesso accompagna le humintas, una sorta di pane di mais arrotolato.

Il mais è molto più che un cereale. In Mesoamerica, la cultura del mais ha dato impulso allo sviluppo. Anche se non è l’unica materia prima sulla cui esportazione si è fondato lo sviluppo economico, in passato in molti paesi della regione una tassa sulla produzione del mais garantiva entrate per la costruzione delle opere pubbliche. Durante l’impero inca, il mais era talmente prezioso che spesso, specialmente in periodi di guerra, veniva conservato nelle qullqa, strutture di pietra utilizzate come depositi ritrovate lungo le strade dell’antico impero inca. Non è bastato a salvare le nazioni latinoamericane dalla povertà e dall’insicurezza alimentare. La sicurezza alimentare, da sempre precaria, negli ultimi anni è stata messa in pericolo dal cambiamento climatico. L’alternanza tra le lunghe siccità e le inondazioni del Niño non hanno giovato all’agricoltura in tutto il Sudamerica.
In base al monitoraggio condotto dalla FAO, nel 2010 a causa delle alluvioni 30mila famiglie si sono ritrovate in una condizione di insicurezza alimentare. Contadini e comunità  indigene sono stati tra i più colpiti: insostenibile per loro, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari dovuto alla perdita dei raccolti e ai danni subiti dalle vie di comunicazione.

La Sara mama e la madre terra sembravano essersi dimenticate di loro.

Colombo non lo sapeva, ma quando riuscì nell’impresa della scoperta dell’America, che i latinos chiamano a ragione “conquista”, diede avvio ad un processo di globalizzazione alimentare che ha cambiato irrimediabilmente le abitudini alimentari degli europei. Il mais era una delle “cose nuove” esportate dal Nuovo Mondo. All’epoca pochi avrebbero potuto immaginare che la civiltà agricola dell’area mediterranea, da sempre incentrata sulla coltivazione e sul consumo di grano, avrebbe potuto inglobare un cereale esotico nella propria economia agricola. Sorprendentemente, invece, da allora il mais è al centro dell’agricoltura italiana. Mais e polenta è diventato un binomio immediato.

La corn belt italiana si estende nel settentrione: Cremona, Padova, Brescia e Mantova provvedono al 26% della produzione totale di mais. I saccenti europei non ritennero però di dover imparare nulla dalle genti che abitavano il nuovo mondo e così pensarono bene di evitare di esportare il processo di trattamento dei chicchi del mais che prevede la loro bollitura nella cenere o, alternativamente, in una soluzione alcalina. Dopo un riposo di almeno otto ore, gli indigeni americani erano soliti lavare e macinare i chicchi, da cui a quel punto sarebbe stato possibile ottenere una masa, utilizzata per preparare le famose tortillas e altri prodotti a base di farina di mais. Grazie a questo processo, chiamato nixtamalizzazione, gli americani sono riusciti a consumare il mais ed i prodotti da esso derivati senza ammalarsi di pellagra. Nel Settecento, la malattia della lingua nera era, infatti, particolarmente diffusa tra i contadini del Veneto e del Friuli. Non a caso, la polenta, che era alla base della loro alimentazione, è realizzata con una farina di mais non sottoposto ad alcun processo di alcalinizzazione. Questo li rendeva incapaci di assorbire alcune vitamine. Se gli spagnoli non avessero pensato che si trattasse di un inutile rito, l’alcalinizzazione avrebbe salvato i mangiatori di polenta del Vecchio Continente. Gli “americani”, che credevano che i bambini nascessero dalle piante di mais, ci hanno nutrito per secoli con il loro mais, le loro patate e i loro pomodori. Anche se l’invenzione dell’agricoltura ci ha reso stanziali, non è bastata ad emancipare i popoli che hanno l’hanno messa al centro del loro sviluppo. Per lo meno non tutti. Non è bastata agli indigeni della Bolivia. «Oggi in Bolivia di mais ne è rimasto poco — spiega il console generale Eva Chuquimia Mamani — Il Messico produce mais in quantità molto maggiori, ma la qualità delle varietà boliviane non ha eguali. Non sappiamo sfruttarlo, dobbiamo riconoscerlo».
Alla festa del mais, però, si festeggia la pachamama che con i suoi frutti ci ha unito.

 

Letizia Gianfranceschi
Studentessa di Relazioni Internazionali. Il mondo mi incuriosisce. Mi interesso di diritti. Amo la letteratura, le lingue straniere e il tè.

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