Ogni epoca storica origina determinati generi letterari, via via diversi, ma tutti segnati da una data di scadenza. Con il tempo, cioè, alcune tipologie testuali si logorano, non trovando più una adeguata continuazione (basti pensare all’epica, genere che oggi è del tutto scomparso). L’età contemporanea, cioè la nostra, ad esempio ha inventato e prodotto il genere romanzo. Provate a chiedere a qualcuno (non esperto del settore) di pensare in generale alla letteratura: quasi sicuramente si immaginerà anzitutto un oggetto libro, o un insieme di libri, appartenente alla categoria romanzo. Essere consapevoli dell’esistenza di questa convinzione permette di comprendere bene alcune dinamiche, ad esempio la reazione del grande pubblico alla recente assegnazione del Nobel per la Letteratura a Bob Dylan, reazione di generale sconcerto perché Dylan non è un romanziere e dunque, in qualche modo, è stato “collettivamente” sentito come lontano dal mondo letterario.
In generale: nella contemporaneità si legge, si legge molto perché i libri sono più disponibili che mai, si leggono perlopiù romanzi e leggono quelle persone che dispongono di molto tempo libero.
L’avvento recente delle serie televisive e il loro largo successo ha, però, progressivamente catalizzato l’attenzione del pubblico desideroso di riempire i propri momenti ricreativi. L’impressione, molto diffusa, è che buona parte di chi una volta si dedicava alla lettura silenziosa di storie ora preferisca fruirle dallo schermo. Sulla base di questo sono in molti a chiedersi se le serie TV stiano prendendo il posto della letteratura o se possano esse stesse venire considerate una sorta di “nuova” letteratura. In effetti, i più recenti dati statistici confermano questa inversione di tendenza: il nostro paese risulta sempre meno interessato alla lettura e più orientato ad impiegare i momenti di svago in attività digitali che coinvolgano l’interazione con uno schermo, compreso quindi il seguire con costanza serie TV. Una pratica radicata per la maggior parte nei millenials.
Dal punto di vista delle abitudini di massa si può quindi dire che, sì, le serie TV hanno preso il posto della letteratura, cioè occupano momenti nell’arco di una giornata prima impiegati nella lettura.
Ma si può quindi affermare che costituiscano una “nuova” letteratura?
Accantoniamo per un momento l’ipotesi più facile, cioè quella affermativa.
Chi sostiene la tesi negativa fa notare che no: mondo seriale e mondo cartaceo non sono assolutamente paragonabili, perché autonomi e distinti. Soprattutto, e questa è un’obiezione davvero intellligente, già il solo fatto di formulare la domanda nei termini “e serie TV sono la nuova letteratura” denota come tutto sia visto in subordinazione all’aspetto letterario o attraverso la lente della letterarietà. Questa formulazione, insomma, tradisce l’idea che la letteratura sia la disciplina migliore e che un paragone con lei nobiliti l’altra, quella meno autorevole.
Conclusione: la letteratura in prosa rimane una narrazione prettamente verbale; la serie TV e tutto quanto il mondo cinematografico rimangono d’altra parte un intreccio di parole, immagini in movimento, effetti sonori e musicali. Due mondi diversi che non ha senso paragonare. Tutto molto ben detto. Ma è davvero miope e disonesto intelletualmente non notare tra questi due ambiti dei punti di contatto e, anche, di subordinazione (stando, almeno, alla storia delle letteratura).
Il concetto di serialità, sul quale si basa l’intera ideazione di quello che sono le serie TV, deriva innegabilmente dal mondo letterario e in particolare dai romanzi di appendice ottocenteschi: una storia viene pubblicata a puntate settimanalmente su una rivista. Gli autori, per accattivare il lettore e spingerlo a continuare a leggere il racconto la settimana successiva (in altri termini: comprare la rivista), si servono di alcuni accorgimenti narrativi. La tecnica più funzionale di tutte è il sapiente utilizzo della suspense, il terminare un episodio con un evento dall’esito incerto, che tenga sulle spine il lettore. Curiosamente, il termine critico deriva proprio da un episodio di un racconto seriale. Nel romanzo A Pair of blue eyes di Thomas Hardy un episodio viene fatto terminare con uno dei protagonisti ciondolante pericolosamente giù da un precipizio: è letteralmente “sospeso”, e in stato di sospensione è anche il pubblico, che vuole sapere se vivrà o si schianterà nel burrone. (Spoiler a fin di bene: nell’episodio successivo sarà salvato grazie a una corda). Niente di così diverso quindi dai classici finali di stagione nei quali la storia si interrompe sul più bello, dove spesso il bello sta per un protagonista che lotta tra la vita e la morte.
L’uso della suspense, però, non è che un micro elemento nell’universo della narrazione: l’intreccio, il punto di vista sulla vicenda, la gestione del tempo, sono tutti elementi che rientrano nella cosiddetta storytelling o narratività, cioè letteralmente la capacità di raccontare una storia.
Ed è questo, se proprio vogliamo trovarlo, l’aspetto davvero trasversale alla letteratura e alla serie TV.
Ed è alla luce di questo che ci si può spiegare come le prime possano sostituirsi, per molti, alle seconde perché entrambe rispondono, alla fine, ad un unico bisogno: quello tutto umano di sentirsi raccontare delle vicende, poco importa se a voce, per iscritto o tramite una commistione di parole e immagini.
Le serie TV sono davvero la nuova letteratura? La domanda, come si diceva, sembra costruita male in partenza. Sarebbe più corretto tenere a mente come nei secoli gli uomini hanno soddisfatto il proprio bisogno di narrativa: con i racconti intorno al fuoco ai tempi dell’homo sapiens, con l’epica cantata dagli aedi, con i poemi cavallereschi, con i romanzi in prosa. Le serie TV sono il nuovo modo di sentirsi raccontare delle storie.