Circa un mese fa, per la precisione lunedì 18 settembre, in via Malaga 4, la galleria NContemporary di Milano accoglieva, nel suo affascinante cortile interno, Maurizio De Bonis, Orith Youdvich e la fotografa Naomi Leshem. Maurizio e Orith presentavano, infatti, il loro nuovo libro Il vento e il melograno sulla fotografia israeliana contemporanea.
La fotografia è oggi una delle arti più interessanti e studiate, che fatica ancora a uscire dalla dimensione classificatoria dove la vogliono costringere gli intellettuali vecchio stampo e gli accademici. Si nutre, infatti, ancora oggi una certa diffidenza nei confronti dell’apparecchio fotografico, diffidenza che risale al momento sua nascita ufficiale, nel 1839, quando ci si chiedeva ossessivamente se la fotografia fosse da considerarsi arte o tecnica, documento o artifizio. Alcuni pittori dell’epoca se ne servivano per affinare le loro opere, per studiare ogni dettaglio, altri ne prendevano le distanze, giudicandola negativamente per la sua apparente perfezione di resa. La fotografia, dicevano poi, sottraeva lavoro a quegli artisti di strada esperti di ritrattistica e paesaggistica che lavoravano sporcandosi i gomiti con colori a olio, carboncino e gomma pane.
Oggi la fotografia è una fra le arti più inclusive del mondo contemporaneo: la troviamo in relazione con il cinema, la poesia, la psicanalisi, la filosofia e non solo. Ed è così anche per la fotografia israeliana, in continua evoluzione, come ci dicono Orith e Maurizio. Ci sono voluti due anni e mezzo di studi, ricerca e lavoro sul luogo, soprattutto incontri ravvicinati con i fotografi selezionati (ventisette in particolare) per poi procedere alla stesura del libro. «Il nostro progetto professionale editoriale vuole superare i confini accademici, che sono costruzioni sovrastrutturali, e predilige invece il lato umano e personale di ciascun fotografo.» Ogni conversazione ha aperto agli occhi degli scrittori un “mondo”, che si trasformava via via che cambiava l’artista con cui dialogavano.
Il panorama israeliano della fotografia è meno conosciuto rispetto a quello cinematografico, ma non per questo meno ricco o espressivo.
Spesso l’idea che si ha di Israele è filtrata dalla politica, dalle informazioni che i media rielaborano e ci comunicano, cosicché il rischio è quello di perdere di vista la specificità di una cultura. «Ogni artista– suggerisce Maurizio– è il precipitato delle contraddizioni di Israele, che non è un’immagine granitica, questo è Israele visto dall’esterno. Non c’è niente di più falso.»
Alla presentazione del libro la fortuna ha voluto che fosse presente anche una delle artiste intervistate dagli autori, Naomi Leshem, e alcuni dei suoi lavori. Naomi ha potuto così esprimere la sua visione interiore. Colpisce in particolare la sua serie fotografica intitolata Runways: ogni foto rappresenta una ragazza al centro di piste di decollo e atterraggio di una base segreta dell’Aeronautica Militare d’Israele. L’orizzonte divide cielo e terra, linea netta che allegoricamente conduce ad un confine altrettanto ben definito della vita delle ragazze fotografate. Il servizio militare in Israele è obbligatorio per uomini e donne. Naomi voleva rappresentare il “time between freedom and military system”. Come scrivono bene i due autori del libro «osservare a lungo le opere di Runways determina in chi guarda la sensazione di essere all’interno di una vorticosa vertigine». Le figure umane sono presenti, ma sono quasi esseri eterei, che si stagliano su un orizzonte indefinito e ben poco rassicurante.
Se dovessimo scegliere tre grandi temi per la fotografia israeliana, e già un’operazione del genere risulta riduttiva, se non addirittura rischiosa, non possono non venire alla luce questioni quali quelle della morte, del sonno, simile a morte, del punto di vista, e del legame inesistente con il concetto di significato. Dormono i soldati di Adi Nes, nella serie di scatti intitolata Soldiers e dormono i soggetti di Naomi Leshem in un altro suo celebre progetto: Sleepers. Uomini e donne addormentati, pietrificati in immagine nella più fragile delle pose, indifesi, oggetti inanimati la cui soggettività riposa altrove e scompare.
L’attenzione alla morte, al dolore e al corpo, si evince in modo preponderante nelle opere di un’altra fotografa analizzata nelle pagine del volume in esame, e cioè Pesi Girsch. La ferita lasciata aperta e mai rimarginata della Shoah, e la sua stessa rappresentazione, è ben presente nelle opere dell’artista. Nella foto dal titolo When Awarness Rose, del 1991, che colpisce per l’inquadratura e per la composizione, si riconoscono le parti scomposte di un corpo femminile totalmente abbandonate in uno specchio d’acqua quasi bianca. È la rappresentazione del disfacimento della materia, è l’emergere dalla morte stessa a cui l’autrice tenta di dare una forma.
È molto difficile trovare una linea che possa descrivere la fertile complessità della fotografia israeliana, che spesso esprime all’unisono temi contraddittori e opposizioni. E questa caratteristica è tale soprattutto se in relazione con l’orizzonte linguistico che sottende: l’ebraico. Questa lingua presenta alcune parole che sono portatrici di più sensi, alle volte in contrasto l’uno con l’altro. Ed è quello che voleva trasmettere Yossi Breger con l’esposizione intitolata Guide for the Perplexed – Homonymus.
Maurizio De Bonis sottolinea l’importanza di interrogare ogni fotografia senza aspettare che ci restituisca una risposta univoca, un solo ed unico significato. L’interpretazione può cambiare, l’arte non è immobile, ma muta in relazione all’osservatore che ha davanti, alla cultura, alle esperienze vissute, all’ambiente. L’arte è libera e senza volto.