A pochi mesi dall’uscita del suo libro Poteri forti (o quasi) edito da La Nave di Teseo, il giornalista Ferruccio de Bortoli, ex direttore de Il Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore, ha tenuto ieri, mercoledì 25 ottobre, un incontro con gli studenti dell’Università degli Studi di Milano.
Spaziando dalle fake news al “male necessario” delle notizie sgradevoli e dalla trasparenza al ricatto, De Bortoli ha fatto una panoramica sulla situazione attuale e recente dell’informazione italiana, delineando quello che per lui dovrebbe essere il buon giornalismo, ovvero “lo strumento in grado di esercitare il giusto controllo sugli altri poteri dello Stato”.
Al termine del suo intervento, noi della redazione di Vulcano siamo riusciti a fargli qualche domanda sul suo libro e sul mestiere. Riportiamo qui di seguito l’intervista.
Partendo dal titolo, spesso oggi si parla dei “poteri” con una connotazione negativa che siano forti o meno. Questa caratteristica non sembra esserci nel suo libro e ne parla quasi con nostalgia (tenendo presente tutti i difetti del caso). È corretto?
Sì, sta dicendo una cosa corretta. Io ho scelto questo titolo e anche questa trattazione perché secondo me c’è un mito troppo negativo dei poteri forti. Un paese ha bisogno di poteri forti: nella politica i partiti, nei lavori i sindacati, nell’economia e nella finanza i grandi gruppi industriali. Ovviamente parliamo di poteri forti che soggiaciano le regole e che esprimano un forte senso di responsabilità, cioè che siano istituzioni a loro volta. Perché quando mancano i poteri forti, cioè mancano i partiti, i sindacati e i grandi gruppi, allora il loro spazio è lasciato ai raiders e questi sono spesso persone, dal punto di vista morale e della loro utilità pubblica, pericolose. Ci sono i raiders della politica (non faccio nomi, ma potete immaginarli) e ci sono i raiders dell’economia e della finanza, che magari scambiano il nostro paese esclusivamente per un mercato da aggredire senza però creare nel paese reddito, occupazione e senza sviluppare investimenti e ricerca. Se ci sono dei poteri forti, come in altri paesi, questi saranno poteri responsabili, cioè danno e restituiscono alla società, all’università. Non fanno gli evasori e se ne vanno. Io preferisco i poteri forti di un paese coeso ai poteri occulti, labili, trasversali, opachi e criminali.
Riguardo il caso Etruria, lei dà la notizia inserendola in un altro discorso, alla fine di un capitolo. Qualcun altro avrebbe aperto un capitolo e sviluppato un intero discorso partendo da questa notizia. Come mai questa scelta stilistica?
Diciamo che quello è un capitolo dedicato a Renzi: io sapevo questo particolare, del quale la fonte ne era assolutamente certa. Io l’ho citato, ma non ci vedo niente di scandaloso che un parlamentare e ministro si occupi della banca del proprio territorio. In questo caso ci sono problemi di conflitti di interessi. È inusuale. Non si sapeva prima dell’uscita del libro che Unicredit avesse valutato l’acquisizione della banca. Era inusuale naturalmente, ma è legittimo che un politico si occupi del destino della banca. Se ci sono familiari è un discorso leggermente diverso, ma altrimenti non ci avrei trovato niente di male, anzi mi sarei meravigliato del contrario. Poi c’è stata una polemica…
Quindi non si aspettava questa bufera mediatica?
No, io no. Ma anche se me la fossi aspettata quello era un capitolo in cui trattavo un’altra cosa, era solo un passaggio e quello che ho saputo l’ho scritto. Punto e fine.
Un’ultima domanda sul caso Etruria: a proposito della mozione contro Visco (sulla quale si è già espresso con un tweet), proprio ieri Di Maio e mdp hanno chiesto alla ministra Boschi di astenersi dalla partecipazione al Consiglio dei Ministri che sceglierà il nuovo governatore della Banca d’Italia. Lei è d’accordo? Non solo nel senso etico, ma anche come mossa politica.
No, io penso che la sottosegretaria Boschi parteciperà, ma evidentemente non credo che ci sarà un caso di conflitto di interessi. Mi auguro che non ci sia. Naturalmente c’è una procedura di legge per le indicazioni del governatore della Banca d’Italia che prevede un’indicazione del Consiglio dei Ministri, una volta sentito il Consiglio Superiore della Magistratura, e poi una scelta del presidente della Repubblica.
Cambiando argomento mi ha colpito un passaggio del suo libro nel quale scrive: “come se tutte le toghe dovessero tenere la trincea dell’indipendenza. Anche in pensione. Sottraendosi a una sincera e disincantata disamina dei fatti. Un dibattito utile che non è ancora stato fatto”. Che cosa intendeva dire? Apriamolo ora questo dibattito.
Intendevo dire che anche i magistrati sbagliano e anche la stagione di Mani Pulite è stata una stagione di errori. Sarebbe interessante che i protagonisti — che hanno avuto il merito di sollevare questo scandalo —, poi si interroghino anche per capire se non ci siano stati errori da parte loro. Penso che quando si guarda al passato, in ciascuna professione, si debba avere il dovere di vedere anche ciò che non è stato fatto, ciò che si poteva fare, anche per ricostruire in maniera più equilibrata e più onesta la storia. Io penso che i magistrati, nel lodevole tentativo di difendere la loro indipendenza, qualche volta sacrifichino la verità storica.
Quando nel libro parla delle sue pubblicazioni, lei rimpiange di non aver pensato tanto alla persona di cui si stava parlando. Io invece le chiedo se le è mai capitato di decidere di non pubblicare qualcosa e di averlo rimpianto.
No. Devo dire che le notizie che c’erano le abbiamo pubblicate. Rimpiango di non essere stato più determinato nel fare delle campagne sul tema delle banche e del potere economico. Articoli con delle notizie a tal proposito ne sono usciti, ma la mia autocritica è quella che avrei dovuto fare delle campagne. Se le avessimo fatte sul tema delle banche, probabilmente, alcune vicende sarebbero state diverse.
Nel lontano ’99, fu tra i primissimi ad apporre il proprio indirizzo di posta elettronica in calce ad un articolo. Si sarebbe mai immaginato che, a distanza di 20 anni, grazie a Twitter e agli altri social, il vostro mestiere sarebbe cambiato così tanto, giungendo a quel massimo livello di reperibilità, botta e risposta ed immediatezza di reazione che lo caratterizza oggi?
Ovviamente nessuno di noi poteva immaginare un’evoluzione — o anche una deriva — di questo tipo. Secondo me il continuo confronto con il lettore è indispensabile, nella misura in cui, naturalmente, questo non appiattisca le idee. Perchè io penso che nel coraggio di chi fa questa professione ci sia anche quello di andare contro, così, per esempio, come lo stesso eletto dal popolo che, nella sua indipendenza, dovrebbe valutare un provvedimento sulla base dell’utilità generale e non preoccuparsi del fatto che piaccia o no ai suoi elettori. La rete è uno straordinario strumento di democrazia diretta ma può essere anche uno strumento di sopraffazione, cioè la minoranza più attiva sulla rete può essere scambiata per la maggioranza o la media degli utenti e, quindi, sostanzialmente esercitare un potere improprio. Bisogna stare molto attenti.
Cosa rimpiange di più della professione giornalista del secolo scorso?
Sicuramente adesso rimpiango la vita in redazione insieme ai colleghi e agli amici. E poi, ovviamente, c’è tutto un aspetto romantico legato alla bellezza di vivere sulla linea degli avvenimenti o, perlomeno, averne la presunzione. Questo è un privilegio impagabile e adesso me ne sento un po’ fuori.
I giornalisti di un tempo erano autorità incontestabili. Ora si trovano spesso ad essere il bersaglio facile di partiti populisiti. Non è possibile una terza via?
L’autorevolezza la si conquista sul campo. Certamente c’è un problema, ovvero la difficoltà ad ammettere di essere caduto in errore. La rete ha questo di buono: se uno ammette subito il proprio errore, viene apprezzato. Forse i giornalisti hanno sbagliato nell’essere parte della scena politica.
La stampa non può farsi costruttrice di consenso, pubblicando solo belle notizie, sacrificando le vere notizie, che possono portare alla luce un problema, scatenare un dibattito e gettare le basi di una possibile soluzione. Non scontentare nessuno è più parte di un ragionamento di tipo politico piuttosto che giornalistico. I giornali spesso sembrano estensione dei partiti che rappresentano o a cui si avvicinano.
Non possiamo nemmeno idealizzare la stampa estera, con cui spesso confrontiamo il grado di libertà dovuta alle diverse fonti di finanziamento dei giornali. Non scambierei il Sun col Corriere della Sera, giornale che ha determinato la scelta su Brexit.
Un difetto è che spesso la stampa è la prosecuzione della comunicazione d’impresa o del governo, magari animata da buone intenzioni. Non si può perdere di vista il proprio ruolo di contestare, scoprire verità, ragionare sul non detto.
Se invece sono amplificatori sono inutili.
Non solo fake news. Ma anche narrazione fuorviante. Prenda il caso della carezza durante gli sgomberi a Roma, quest’estate. Non si voleva strizzare l’occhio ad un certo elettorato o parte politica?
Non penso ci sia una manipolazione così raffinata. Gli si dà risalto perché colpisce, mette in risalto l’imbarazzo della persona che sgombera e si trova davanti persone che hanno delle necessità. Non ci vedo altri meccanismi.