Studi scientifici odierni stanno dimostrando che la ripetizione compulsiva di qualsiasi attività induce a un meccanismo di dipendenza, anche quando l’individuo è razionalmente consapevole delle conseguenze dannose delle sue azioni. Il gioco d’azzardo, lo shopping ossessivo, la cleptomania, mangiare in modo smisurato sono tutte attività basate sul meccanismo della ricompensa, un processo primitivo alla base del desiderio che spinge la persona verso ciò di cui sente bisogno.
«Tutto ciò che è eccessivamente gratificante, che induce euforia o calma, può creare dipendenza» afferma Jon Grant, che dirige la Clinica per i disturbi da dipendenza, compulsivi e impulsivi dell’Università di Chicago.
In un mondo in cui le attrattive sono molteplici questo può rivelarsi una trappola.
La dipendenza, che subentra quando il circuito del desiderio invade i centri del piacere, approfittando della straordinaria plasticità del cervello, riplasma i circuiti neurali per attribuire un valore altissimo al fumo, all’alcool o alla droga a scapito di altri valori quali la salute, il lavoro, la famiglia o la vita stessa. «La dipendenza è una forma patologica di apprendimento» spiega Antonello Bonci, neurologo del National Institute on Drug Abuse.
A evidenziare la somiglianza con la tossicodipendenza, in pazienti affetti da questi disturbi, sono state le scansioni del cervello risultate simili nei giocatori d’azzardo a quelle di persone che fanno uso di droghe e in cui si è registrata una diminuzione dell’attività nelle zone del cervello deputate al controllo degli impulsi. Questo spiega perché il gioco d’azzardo produce dei comportamenti simili a quelli dei tossicomani, come la necessità di alzare la posta in gioco per continuare a sentire l’effetto e l’incapacità di smettere. In entrambi i casi inoltre, i livelli di dopamina, il neurotrasmettitore responsabile del desiderio, sono risultati più elevati rispetto all’intervallo naturale.
Il modello tradizionale di dipendenza, che implicava necessariamente l’utilizzo di droghe, non chiariva nemmeno l’aspetto più insidioso, quello delle ricadute. Non più un deficit morale, una “debolezza”, ma una malattia.
Quando avvengono dei cambiamenti nella zona prefrontale e in altre regioni corticali del cervello dovuti al sopraggiungere della dipendenza, essi alterano il giudizio e l’autocontrollo. Man mano che gli stimoli a cui ci si è assuefatti aumentano d’importanza, il campo dell’attenzione si restringe, quindi diminuise la capacità di una risposta adeguata.
La guarigione di queste regioni cerebrali è comunque possibile.
Bonci e i suoi colleghi hanno testato l’ipotesi di stimolare la corteccia prefrontale, responsabile delle inibizioni, per placare l’impulso dei tossicodipendenti a drogarsi. Da alcuni esperimenti precedenti si era infatti constatato che durante il periodo di astinenza questi neuroni erano silenziosi.
Lo psichiatra e tossicologo Luigi Gallimberti ha ipotizzato come impulsi ripetuti di stimolazione magnetica transcranica potessero riattivare i percorsi neurali danneggiati dalla droga. Questa procedura sta avendo su pazienti cocainomanidei buoni risultati, più efficaci rispetto alle cure standard. Si sta sperimentando anche per aiutare i pazienti a smettere di bere, fumare, giocare d’azzardo e contro l’abuso di oppiacei, ma saranno necessari altri studi per dimostrare che il trattamento è duraturo.
Nonostante la componente patologica, il lavoro psicologico sembra essere essenziale per la sconfitta della dipendenza. Alcuni studiosi dell’Università di Washington hanno dimostrato che un programma basato sulla mindfulness è stato più efficace di altri nel prevenire le ricadute nella tossicodipendenza ed è stato sperimentato il medesimo successo per il fumo. Questa pratica, promossa dallo psichiatra specializzato in dipendenze Judson Brewer, utilizza la meditazione e altre tecniche contemplative per portare alla consapevolezza dei desideri che producono comportamenti autolesionistici, abituando le persone a non reagirvi. Ci sono sempre più prove che affermano che questo metodo aiuti a contrastare i picchi di dopamina che caratterizzano la vita contemporanea.
Fino ad oggi, però, non si è ancora trovata una cura definitiva, né un tipo di prevenzione a queste possibili assuefazioni che, oltre a peggiorare la qualità della vita della persona, che si ritrova a intraprendere un difficile percorso verso la guarigione, vanno a costituire un peso non solo economico per la società.