Del: 18 Ottobre 2017 Di: Redazione Commenti: 0

Riccardo Cattaneo

È sempre vero che rimettere alla volontà popolare la presa di una decisione è sempre corretto e democratico?

Se la maggioranza prende una decisione (come l’indipendenza in un referendum), la volontà popolare deve prevalere. Questa è la tesi di chi afferma che i plebisciti sono forma più pura di democrazia. In mano a demagoghi e dittatori, la storia però dimostra che essi sono un percorso verso l’autoritarismo, perché libertà e democrazia poggiano sullo stato di diritto e sulla tutela delle minoranze, principi cardine che non possono essere rovesciati dai capricci della maggioranza di turno.

D’altro canto, però, l’importanza e potenziale dello strumento referendario sono pienamente compresi ed applicati dalla Svizzera, tanto da divenire uno dei cardini della democrazia elvetica. La popolazione vive la quotidianità politica abituata al suo utilizzo ed è preparata ad utilizzarlo, a differenza di quei Paesi nei quali incontra nientemeno che un uso sporadico. Ma si può affermare ciò anche nei casi in cui, ad esempio, la popolazione si rifiuti di accettare un piano di riforma del sistema pensionistico per ragioni di sostenibilità o quando si vogliono porre tetti ai frontalieri comunitari ignorando Schengen e le possibili ritorsioni europee?

La realtà dimostra che l’istituto referendario è, nei fatti, uno strumento tanto potente quanto pericoloso.

Per questo, è logica conseguenza pensare che il suo utilizzo debba essere oggetto di limitazioni. Questo hanno pensato i costituenti della nostra Repubblica, limitandolo alle sole forme costituzionale, territoriale, abrogativa e, in taluni casi, consultiva. Quest’ultimo caso, tuttavia, pone anche limiti (art. 75 Cost.) al suo utilizzo in materia di leggi tributarie, bilancio, amnistia, indulto e ratifica di trattati internazionali (ivi compresa l’adesione a organizzazioni inter e sovranazionali). In quest’ultimo caso è evidente come il limite sia posto per evitare che un’avventata decisione popolare possa portare ad uno sconvolgimento della politica estera del Paese e delle sue relazioni diplomatiche.

È poi giusto affidare alle masse l’espressione di un giudizio su materie prettamente tecniche? Prendiamo in considerazione alcuni casi che possano tornare utili. Nel 2005 la Francia respinse con referendum la ratifica della Costituzione europea, ma appena tre anni più tardi, l’allora governo di Sarkozy ratificò il testo del Trattato di Lisbona – che riprende del tutto o in parte ogni misura prevista dalla Costituzione –, evitando di sottoporsi nuovamente a tale rischio. Lo stesso testo è stato oggetto di doppio referendum in Irlanda, atto a sbloccare l’impasse conseguente al primo esito negativo. Ancora, la Brexit, argomento implicante così tante complicazioni che pare che nemmeno i negoziatori riescano a divincolarsene, fu conseguenza di un referendum. Infine, in Colombia l’accordo per la fine della guerra civile tra FARC e governo fu bocciato tramite referendum per poi essere, in una fase successiva, comunque ratificato. In ultimo, di una differente ma pari complessità, possono essere considerati i referendum convocati per decretare un profondo mutamento istituzionale di uno Stato (si guardi ai referendum del 2001, 2006 e 2016 in Italia).

Questo tipo di decisione richiede a chi è chiamato ad esprimersi in giudizio, un profondo sforzo di informazione e, nella maggior parte dei casi, di studio. La realtà dei fatti è che nell’era della post-verità in cui urla e accuse infondate, veicolate oggi come non mai, attirano e valgono più di mille argomenti, i referendum si riducono in un mero strumento demagogico e manipolativo facente leva sugli orientamenti politici del momento.

Parzialmente di segno opposto è, invece, lo studio dello strumento referendario in relazione a questioni sostanzialmente legate all’etica personale. Risulta infatti molto più semplice prendere una decisione in tale materia anche per persone che non hanno fatto dello studio politico un proprio interesse. In questo senso vanno molti dei referendum celebrati in Italia e altrove (Irlanda, Slovenia, Australia, ecc.) su temi come divorzio, porto d’armi, aborto, unioni civili e matrimoni tra persone dello stesso sesso (questi ultimi mai convocati nel nostro paese). Ma anche qui il rischio è dietro l’angolo: la maggioranza non sempre è in grado di riflettere in modo lungimirante sulle decisioni da prendere, e ciò rischia di legittimare idee discriminatorie (si veda, ad esempio, la generale posizione di contrarietà ai diritti civili dei black Americans negli anni ’60) tipiche di una oclocrazia tocquevilliana. Anche qui è necessario che l’uomo politico sia una figura saggia e responsabile, ma anche su questo non si può sempre fare affidamento.

Di fatto, tutto si muove lungo fragili equilibri: da un lato si trova l’idea che la decisione popolare debba essere sistematicamente eseguita, mentre dall’altro la responsabilità politica deve poterla anche ripudiare, se necessario. Fondamentale è anche l’informazione, specialmente da parte governativa. Troppo spesso, però, si finisce per sponsorizzare gli obiettivi politici di breve termine, invece di promuovere l’interesse generale sottoponendo genuinamente una questione ad una popolazione preparata ed informata.

Questo già complesso ed irrisolvibile dilemma si moltiplica per le questioni nazionaliste, laddove questioni etiche sollevano problematiche reali o percepite (come la cultura catalana) che possono comportare impressionanti conseguenze di natura giuridico-istituzionale, anche a livello internazionale. In questi casi, la volontà popolare rischia più di essere un potente strumento disordinatore, più che la soluzione ultima dei problemi politici correnti.

Benché la legittimità democratica dell’istituto referendario non possa in alcun modo essere contestata, occorre considerarne i rischi e le complessità.

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