Del: 16 Dicembre 2017 Di: Lucia De Angelis Commenti: 1

Il mondo occidentale ha scoperto l’Islam l’11 settembre 2001. Da allora ogni velo è stato guardato con sospetto, ogni barba scrutata.

Si apre così La jihad delle donne. Il femminismo islamico nel mondo occidentale di Luciana Capretti. Un saggio edito quest’anno da Salerno Editrice su ciò che per molti, ancora oggi, è visto come un autentico ossimoro.
Il termine jihad, che per gli occidentali ha assunto un significato terribile e orrendo, connesso al terrorismo islamico, in realtà significa “sforzo”, tentativo di superare se stessi. Jihad delle donne indica lo sforzo di ricondurre l’Islam alla sua essenza originaria, dove nessuna fetta di umanità è privilegiata agli occhi di Allah; lo sforzo consiste quindi nello spogliare il Corano da tutte le interpretazioni, condotte da secoli in maniera unilaterale, che hanno accentuato esclusivamente la prospettiva maschile.
I governi e l’opinione pubblica occidentali, da quando si sono preoccupati dei diritti delle donne islamiche, hanno promosso un tentativo di liberazione della donna dall’esterno (che nascondeva e nasconde, in realtà, il pretesto di campagne militari e strumentalizzazione politica), il che, oltre a risultare ipocrita e paternalistico, ha reso di fondo difficoltosa l’emancipazione femminile, intesa come autodeterminazione.

E, in effetti, l’introduzione stessa del termine femminismo islamico è apparsa come l’ennesima crociata occidentale contro l’Islam.

Fu utilizzato per la prima volta nel 1995, a Pechino, durante la quarta Conferenza Mondiale sulle Donne delle Nazioni Unite, per chiedere ai tradizionalisti islamici un adeguamento alla modernità.
Il movimento femminista si è poi dotato di due anime: una negazionista, poiché rinnega il Corano, ritenendolo fortemente discriminatorio e motivo di oppressione secolare, e un’altra interpretativa, che muove le sue critiche dall’interno ed è costituito perlopiù da storiche, teologhe e docenti universitarie, che non intendono abbandonare la loro religione ma riformarla dall’interno. Il cuore del loro messaggio è questo: il Corano è universale nell’intento ma non nella sua epistemologia e va quindi riletto e reinterpretato.

Secondo questa seconda corrente sono, piuttosto, i testi secondari a incentivare la discriminazione tra sessi: il tafsìr, l’esegesi coranica, gli ahàdith, i racconti dei detti del Profeta, la sunnah, la raccolta delle azioni del profeta, la shari’ah, il codice di leggi che regolano la vita musulmana. Molti di questi, oltre a non essere concordi tra di loro, sono stati creati ad arte da studiosi di Maometto per difendere un sistema socio-politico o compiacere un califfo. Il Corano, infatti, doveva poter coinvolgere una fetta di umanità che si serviva ancora di pene corporali e schiavi e che quindi necessitava di un linguaggio adatto a loro. Oggi, viviamo in un’epoca molto diversa e bisogna perciò interpretare e applicare il Corano nei suoi principi fondamentali, non nei dettagli.

Il vero Islam, sostengono le femministe, è un luogo di uguaglianza e laddove il testo non lo afferma è per motivi storici o pragmatici.


Nemmeno la
violenza è concepibile come insegnamento islamico. Il Corano cerca di arrivare alla pace e all’armonia, mentre gli uomini che picchiano le loro mogli chiaramente non cercano l’armonia, ma il male.

Il saggio alterna la precisione dei dati storici e documentari alle vicende personali, spesso toccanti, di donne incredibilmente forti e coraggiose che, dai tempi di Maometto ad oggi, si sono rese testimoni di un modo diverso di intendere e praticare l’Islam.

Conosciamo così Hajar, la concubina di Abramo, incinta e abbandonata da sola nel deserto e che da sola dovette affrontarlo; conosciamo le imamah (variante femminile di imam) Amina Wadud, Sherin Khankan, Rabeya Müller, che in differenti città occidentali (rispettivamente: New York, Copenaghen, Colonia) pronunciano oggi la preghiera del venerdì di fronte alla comunità di fedeli. Esiste infatti un precedente nelle sacre scritture, quello di Umm Waraka, che condusse la preghiera nella casa di Maometto, perché da lui ritenuta la più preparata della comunità. In questo senso, dunque, la presenza delle imamah non sovverte alcuna tradizione islamica, semmai rende onore alla sua essenza originaria.

Se volete saperne di più, se pensate che nel nostro paese (ed è così) si parli troppo poco e con troppa approssimazione di questo tema, fatevi questo regalo: comprate il saggio e divoratelo.

Lucia De Angelis
Mi entusiasmano i temi sociali, i filosofi greci, le persone intelligenti e le cose difficili.

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