Impiccagioni in piazza di fantocci con fotografie di politici europeisti, cortei antisemiti che radunano nazisti di tutta Europa, governi autoritari e antidemocratici, progressive limitazioni della libertà di stampa e del potere giudiziario, costanti violazioni dei valori e delle leggi dell’Unione Europea.
Ribolle così l’est europeo.
Dall’Ungheria alla Polonia, in territori che fino a pochi decenni fa erano ancora satelliti dell’Unione Sovietica, un’offensiva neofascista senza precedenti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ha portato xenofobi e antisemiti al governo e ha sedimentato nella popolazione un diffuso sentimento di odio e avversione nei confronti di stranieri, non cristiani, donne e omosessuali. In pochi anni si è così generata, all’interno dell’Unione Europea, una pericolosa sacca di estrema destra che mina alle fondamenta la tenuta delle istituzioni europee.
Il primo paese dell’Unione in cui la generale ondata conservatrice e spesso reazionaria ha portato un partito di estrema destra al governo è stata l’Ungheria. Viktor Orbàn, leader del partito nazionalista euroscettico Fidesz, divenne primo ministro nel 2010 con l’appoggio determinante dei neofascisti di Jobbik. Orbàn, nonostante l’appartenenza al Ppe, ha più volte ingaggiato battaglia con l’Unione, in particolare sull’immigrazione. Alle elezioni del 2014 Jobbik è balzato al 20% e da allora mira a sostituire Orbàn vincendo le prossime elezioni del 2018. Se però preoccupa l’avanzata di Jobbik, un movimento spesso protagonista di vere e proprie “cacce” al migrante e fautore di restrizioni alle libertà di gay e musulmani, altrettanto allarmanti sono i provvedimenti adottati da Fidesz per restare al potere: una nuova legge elettorale che “limita la rappresentanza delle minoranze”, come ha scritto la London School of Economic and Political Sciences, e un’offensiva giudiziaria contro Jobbik, condannato dalla Corte dei Conti a una multa di due milioni di euro per aver ricevuto fondi elettorali illeciti.
Negli ultimi mesi ha poi destato particolare attenzione la Polonia. L’11 novembre 60 mila persone hanno marciato in occasione dell’anniversario della fine della Prima Guerra Mondiale. Il corteo ha attraversato Varsavia scandendo cori antisemiti, xenofobi e suprematisti. In difesa dei valori cristiani e della tradizione al grido di “Vogliamo Dio” — il celebre slogan recentemente elogiato da Trump, con il quale nel 1979 i polacchi, ancora sottoposti al dominio sovietico, accolsero nel 1979 papa Wojtyla — sono giunte delegazioni di partiti e movimenti neofascisti da tutta Europa. La tv di Stato ha parlato di “patrioti”, mentre il ministro dell’Interno ha lodato la manifestazione.
Pochi giorni dopo, a Katowice, alcuni manifestanti di estrema destra hanno esposto delle forche con le foto di sei eurodeputati di centrosinistra, che a Bruxelles avevano votato una risoluzione di condanna del governo di Varsavia sul rispetto dello stato di diritto. Il governo polacco, infatti, è controllato dal 2015 dai nazionalisti di Diritto e Giustizia, che in breve tempo hanno varato una folta legislazione contro il potere della magistratura, i diritti delle donne e la libertà stampa. Dall’entrata nell’Unione nel 2004 la Polonia si è progressivamente isolata rispetto agli altri partner comunitari, opponendosi recentemente persino all’elezione del polacco Donald Tusk a presidente del Consiglio europeo. Le perenni contraddizioni e oscurità della politica polacca e la costante contrapposizione con l’Unione hanno generato un clima infuocato. L’acme delle tensioni con le istituzioni comunitarie si è avuto con la riforma del sistema giudiziario. Dopo che la presidente della Corte Suprema ha definito la riforma “un golpe attraverso l’abuso delle istituzioni legali”, il 21 dicembre il vice presidente della Commissione Frans Timmermans ha annunciato che l’Unione applicherà entro tre mesi l’articolo 7 dei Trattati, quello che prevede un meccanismo di tutela dei valori europei nel caso in cui siano minacciati, perché in Polonia c’è “il chiaro rischio di una seria violazione dello stato di diritto”. Per evitare l’applicazione dell’articolo 7 la Polonia, che rischia la sospensione del diritto di voto in sede europea e la sospensione dei finanziamenti, deve rinunciare entro tre mesi alla riforma della magistratura. Il governo, per adesso, si è rifiutato.
La decisione dell’Unione, senza precedenti, ha scavato un solco forse incolmabile con il governo polacco. Ma la Polonia violava ormai da troppo tempo i valori europei e, più che ingiustificata, la svolta di Bruxelles è apparsa persino tardiva.