L’8 marzo quest’anno arriva come la prima di uno spettacolo provato ininterrottamente e inutilmente da mesi. Il caso Weinstein, #metoo, Time’s up, le dichiarazioni di Catherine Deneuve, i Golden Globe in nero e la recente cerimonia degli Oscar hanno alimentato per molto tempo un interrotto brusio. Molestie, consenso, lavoro, opportunità. Analisi, controanalisi, discussioni e polemiche.
Ammettiamolo pure: in Italia parlare di femminismo richiede una fatica erculea.
Perché anche ammesso che si riesca a superare lo scoglio dei pregiudizi più ostinati — no, il femminismo non odia gli uomini; no, il femminismo oggi non è uguale a quello degli anni Settanta; sì, anche gli uomini possono dichiararsi femministi; sì, abbiamo ancora bisogno di parlare di una questione femminile anche se in alcuni paesi le donne se la passano decisamente peggio che da noi — rimane comunque un atteggiamento a metà tra lo scetticismo e il fastidio irrazionale, l’indifferenza e la minimizzazione beffarda.
«Ancora con questo femminismo? La parità dei diritti è stata ormai raggiunta». Liquidare così in fretta la questione è indice della più evidente intolleranza.
Si può ribadire che il piano giuridico non coincide gioco forza con tutti gli altri: rimangono quello politico, quello economico, quello sociale e quello culturale.
Si può dire che in Italia l’ambito politico non è ancora di pertinenza pacifica delle donne, e non c’è bisogno di citare le innumerevoli volte in cui esponenti politiche nostrane sono state insultate e svilite in senso sessuale, né c’è bisogno di riesumare tutto il ginepraio che è stato — ed è tutt’ora — il dibattito sull’attuale declinazione al femminile di ruoli professionali storicamente ricoperti da uomini. Evidentemente il ruolo di leader (di un partito, di un paese, di una trasmissione che parli di politica) non si coniuga ancora con una figura femminile.
Si può dire che economicamente bastano i dati del gender gap dell’ultimo report della Commissione Europea in base ai quali, in sintesi, siamo il penultimo paese d’Europa per capacità di includere le donne nel lavoro.
Si può dire che culturalmente esistono innumerevoli spie di disparità: dal mansplaining al mondo dell’editoria che ancora oggi, ebbene sì, si rivolge ad un pubblico femminile proponendo una vasta gamma di storie d’amore e sentimento (perché è del tutto impensabile che gli interessi di una donna la portino a leggere un’opera filosofica o una storia avventurosa e basta).
O si può anche dire che, per quanto riguarda il sociale, se si è così ingenui da credere che uomo e donna, nel nostro paese, abbiano la stessa considerazione, si può provare a fare questo esperimento: si può provare, da donne, a parlare liberamente e senza filtri con amici uomini della propria sessualità, dei propri desideri. E osservare poi le loro reazioni.
Oppure: provare a dire alla propria famiglia che non si desidera avere figli, o essere madri perché si hanno altri progetti nella vita. E osservare le loro reazioni.
Si possono dire moltissime cose, sempre, e provare a dialogare. Però a volte il maschilismo imperante e ostinato — che ovviamente è uno schema di pensiero e come tale si annida potenzialmente nella mente di chiunque, uomo o donna — rischia di far disamorare della causa, rischia di mettere a tacere ogni bella occasione di confronto o anche di scontro acceso.
Rischia di far pensare: «Che si fotta il femminismo insieme a tutti questi fiumi di parole, mi sono stancata di prendere a testate un muro».
Un giorno come oggi, però, esiste appositamente non solo per riflettere su tutte queste tematiche, per ricordare le conquiste o per ribadire con serietà, magari in manifestazione, le disuguaglianze ancora in atto, ma anche per accantonare la frustrazione inevitabile e continua nel dichiararsi femministi.