Del: 5 Aprile 2018 Di: Redazione Commenti: 0

Anna Di Raimondo

Nell’agosto del 2017, sul palco di Capalbio Libri, alla domanda “Quale libro consiglierebbe a Matteo Renzi?”, Dario Franceschini risponde proponendo Cent’anni di solitudine, scritto nel 1967 dal Premio Nobel Gabriel Garcìa Màrquez. Quella di Franceschini non è che una semplice frecciatina, un tantino velenosa, in riferimento al clima di smobilitazione che si è creato nel partito e alla fuga di simpatizzanti e dirigenti locali e nazionali e che potrebbe portare Renzi a guidare un partito fantasma. Quello che è certo è che Franceschini non pensa a una reale similitudine tra la storia di Matteo e quella che viene narrata da Màrquez.

A quella c’ho pensato io.

Chiunque si fosse perso la lettura di un capolavoro letterario del Novecento come Cent’anni di solitudine deve sapere che è considerata l’opera in lingua spagnola più importante dopo Don Chisciotte della Mancia.

Il romanzo racconta le vite straordinarie della famiglia Buendìa: da José Arcadio, capostipite della famiglia, fino ad  Aureliano Buendìa, l’ultimo dei numerosi che prendono vita nel romanzo.

Il tutto è ambientato nell’immaginaria quanto surreale città di Macondo, fondata da José Arcadio insieme alla moglie Ursula, e destinata a una serie infinita di cambiamenti che si susseguono uno dopo l’altro parallelamente alle storie della famiglia Buendìa. La conclusione della storia di Macondo arriverà sotto forma di profezia, proprio quando le pergamene di Melquiades, uno zingaro conosciuto da José Arcadio Buendia, verranno tradotte dall’ultimo discendente della famiglia.

«Il primo della stirpe è legato a un albero e l’ultimo se lo stanno mangiando le formiche.»

L’ingrediente principale che permette a questo romanzo di lasciare i suoi lettori senza fiato e con una nuova collezione di paranoie è il tema della soledad, la solitudine, che Màrquez ci offre in diverse versioni. Sembra quasi che la sua intenzione sia di coinvolgere il lettore a tal punto da fornire una raccolta completa di esseri umani in cui riconoscersi e immedesimarsi.

E infatti, tanti si saranno probabilmente sentiti vicini a Remedios la bella e alla sua totale non appartenenza al mondo reale o ad Amaranta e alla sua costante invidia per la sorella Rebeca.

Insomma, un intreccio genealogico che mette a dura prova la memoria del lettore, ma il cui filo conduttore è sempre e solo la solitudine. Un destino che non accomuna solo la famiglia Buendìa, ma tutti noi poiché ogni essere umano è sostanzialmente condannato a vivere, lottare, amare e morire in solitudine senza essere mai realmente compreso dagli altri. O almeno è quello che sostiene Màrquez.

Tra i tanti personaggi, c’è uno che spicca fra tutti: il colonnello Aureliano Buendìa.

Il colonnello è uno dei personaggi cardine del romanzo. È un uomo rispettato da tutti che, mosso da un profondo senso di ingiustizia e in seguito alla scoperta delle elezioni truccate dal governo e alle violenze dei militari, si unisce ai rivoluzionari liberali al fianco dei quali combatterà nella Guerra dei mille giorni. Sopravvive a quattro attentati, settantatré imboscate, a un tentativo di suicidio e a un plotone di esecuzione, ma terminata la guerra, trascorre il suo tempo a fabbricare pesciolini d’oro che rivende in cambio di altro oro che gli serve per realizzare nuovi pesciolini.

Rileggendo di recente il romanzo non ho potuto fare a meno di notare i diversi punti in comune tra la vita del colonnello e quella dell’ex segretario del Pd, Matteo Renzi.

Durante la guerra civile, Aureliano sale velocemente ai vertici della gerarchia militare divenendo una figura chiave all’interno del gruppo. Vorrebbe unificare il comando ribelle contro le manovre dei politici e così convoca un’assemblea nella speranza di riuscirvi, ma durante l’incontro emerge la figura di Teòfilo Vargas che precede i suoi propositi, manda all’aria la coalizione e si impadronisce del ruolo di comandante generale.

Torniamo alla realtà e, più precisamente, al dicembre 2012 quando il giovanissimo Matteo Renzi, allora sindaco di Firenze, si candida alla segreteria del PD. Deve vedersela con altri cinque candidati, ma soprattutto con un più esperto Pierluigi Bersani.

Dei tre milioni di elettori, il 61% decide di dare la propria fiducia a Bersani e così Renzi, con il suo 38%, è sconfitto, riuscendo a battere il vincitore in una sola regione, la sua Toscana.

Mentre Teòfilo Vargas viene fatto a pezzi a colpi di machete in un’imboscata e il colonnello Buendìa prende il comando, parallelamente Bersani riesce a vincere per un soffio le elezioni, ma non ottenendo la maggioranza in Senato, viene fatto fuori (metaforicamente e senza machete) da Enrico Letta, chiamato dal Capo di Stato a formare un governo di larghe intese. Nel frattempo, il PD è nuovamente chiamato a nominare un nuovo segretario e questa volta Matteo stravince con il 67%. Bersani non pervenuto.

Scomparsi Vargas e Bersani, i due colonnelli hanno praticamente il potere in pugno, ma entrambi litigano con gli esponenti di rilievo del loro gruppo. Aureliano, disperso e più solo che mai, si convince che i suoi ufficiali non siano affidabili e così rompe i rapporti con il Duca di Marlborough, il suo “maestro nelle arti della guerra”.

«Il migliore amico», soleva dire allora, «è quello che è appena morto.»

Si accorge così che il potere incrina tutti i rapporti personali. Probabilmente alla stessa conclusione arriva Renzi che nel gennaio 2014 tranquillizza e sostiene il Presidente Letta con il suo «Enrico, stai sereno!», per poi cambiare idea un mese dopo e dichiarare che «serve un cambiamento radicale».
Con 136 sì e 16 contrari, il Pd approva la fine del governo Letta e finalmente Renzi sale al Governo.

Nel frattempo il colonnello Aureliano si rende conto che il potere tanto bramato non è altro che un’immensa e infinita immobilità in cui, paradossalmente, si diventa più vecchi e più stanchi. C’è sempre qualcuno che ha bisogno di soldi, chi ha figli a carico da sfamare, chi vuole abbandonare la partita perché non è più in grado di sopportare il sapore amaro della guerra. Nessuno è mai soddisfatto, tutti vogliono di più.

Matteo Renzi, invece, più caparbio e meno rassegnato di Aureliano decide di lanciarsi in un’impresa, forse, più grande di lui: vuole riformare la Costituzione dei padri fondatori della Repubblica italiana con un Referendum. «Io non sono come gli altri», dichiara, «se gli italiani diranno No, prendo la borsettina e torno a casa.»

Praticamente trasforma il referendum costituzionale in un referendum personale. Alla domanda implicita “volete Matteo Renzi?”, molti rispondono no e Matteo perde.

I nostri eroi, entrambi delusi e amareggiati, decidono di tornare nelle rispettive città. Così, Aureliano ritrova la serenità a Macondo, avvolto dal calore dei suoi ricordi, ma cade nell’apatia di una vita tranquilla; come promesso, Renzi annuncia le dimissioni per tornare dalla sua famiglia e riabbracciare la bellezza della normalità, come comprare un pandoro per Natale. Ma evidentemente preferisce farsi linciare da tutta l’opinione pubblica piuttosto che fare la spesa alla Conad e dunque rientra in campo.

Ma quando si diventa il politico meno amato d’Italia, dietro a Salvini che ha costruito il suo regno sull’incoerenza e il populismo, dietro a Di Maio che sbaglia congiuntivi, persino dietro al pluripregiudicato Silvio Berlusconi, la domanda sorge spontanea: dove ha sbagliato? Come è possibile che successi indiscutibili come la legge sulle unioni civili e la ripresa economica certificata dall’Istat vengano offuscate dal decreto sui sacchetti biodegradabili a pagamento e dalla fake news sulla cugina di Renzi produttrice di bio-plastiche?

La risposta va ricercata ritornando alle origini di Renzi e nello specifico a quando aveva conquistato molti con la promessa di voler rottamare non solo i leader più anziani del partito, ma anche i metodi ormai superati della politica italiana.

«L’Italia con me sarà un posto dove trovi lavoro se conosci qualcosa, non se conosci qualcuno!», dichiarava Renzi nel 2012. Ma il toscano il rinnovamento non l’ha mai neanche sfiorato. Al merito ha preferito i rapporti personali. Basti pensare a Marco Seracini, commercialista di Matteo, preso nel collegio sindacale dell’Eni.
Come dimenticare la crisi di Banca Etruria che ha messo a dura prova sia Renzi che Maria Elena Boschi; il caso Consip o il rapporto personale con Marco Carrai, un imprenditore che opera su diversi fronti come investimenti immobiliari e cyber-security.

Una differenza significativa, però, esiste tra il colonnello Buendìa e Matteo Renzi. Si tratta di una consapevolezza che il colonnello raggiunge dopo anni di lotte.

«Dimmi una cosa, compare: per cosa combatti?»
«Per cosa vuoi che sia, compare», rispose il colonnello Gerineldo Márquez, «per il grande Partito Liberale.»
«Fortunato tu che lo sai», rispose lui. «Io, da parte mia, soltanto ora mi rendo conto che sto combattendo per orgoglio.»

È di fronte a questa consapevolezza che il colonnello decide di ritirarsi dalla politica e rinchiudersi nell’oreficeria di suo padre per realizzare pesciolini d’oro. E a chiunque cerchi di informarlo sullo stato delle cose, risponde: «Non parlarmi di politica, noi ci occupiamo di vendere pesciolini». Ciò che gli interessa non è il guadagno, ma il lavoro. Un lavoro che richiede talmente tanta concentrazione da tenergli la mente occupata, così da non pensare alle delusioni delle guerra.

Le delusioni non sembrano spingere Renzi a giungere alle stesse conclusioni: non ci sono pesciolini d’oro da vendere, ma solo dimissioni da segretario del PD e rumors su un possibile nuovo partito di Renzi alla “Macron”. Dall’altro lato, c’è chi ancora sostiene che Matteo Renzi sia una figura irrinunciabile: “il PD non si ricostruisce senza il contributo di Renzi”, ha dichiarato Matteo Orfini, Presidente dell’Assemblea nazionale del partito.
Eppure una cosa è certa, con le elezioni del 4 marzo, gli italiani hanno mandato un messaggio chiaro e inequivocabile a Matteo Renzi e al Partito Democratico: il vostro tempo è scaduto.

E così mentre di fronte al plotone di esecuzione il colonnello Aureliano Buendìa ricorda il remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio; per Matteo Renzi il plotone di esecuzione è un misero 18% di fronte al quale non può fare a meno di ricordare e rimpiangere con nostalgia il 17 febbraio 2014 e l’inizio dei suoi mille giorni da Presidente del Consiglio.

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