Del: 12 Aprile 2018 Di: Michele Pinto Commenti: 0

La politica italiana si è sempre distinta per la sua creatività nel trovare soluzioni sofisticate, inventare formule inconsuete e coniare espressioni innovative. Negli ultimi anni questa frenesia politicista ha contagiato molti paesi europei, come il Belgio e la Spagna.

Ma dopo il voto del 4 marzo l’Italia è ripiombata nella situazione di ingovernabilità che si era configurata già nel 2013. In quel caso, però, la maggioranza che il centro-sinistra aveva ottenuto almeno alla Camera aveva costituito la base di partenza per la formazione di un governo di “larghe intese” tra Pd e Pdl.

Oggi il quadro è molto più complicato, perché nessuno schieramento può rivendicare legittimamente la guida del governo. Nonostante l’elezione dei presidenti delle Camere avesse rappresentato un banco di prova per un’eventuale intesa tra centro-destra e Cinque Stelle, la situazione si è presto ingarbugliata. Dopo che il primo giro di consultazioni al Quirinale è andato a vuoto il presidente Mattarella non ha conferito alcun incarico e si è riservato di effettuare nuovi colloqui con i leader dei partiti, nel tentativo di chiarire le posizioni e raggiungere un accordo.

Il rito delle consultazioni, tanto solenni quanto inconcludenti, ha avuto il merito di fotografare plasticamente lo stallo della situazione italiana: i veti incrociati, le pregiudiziali e le rivendicazioni di purezza impediscono dopo oltre un mese dalle elezioni la convergenza delle forze politiche e la risoluzione della crisi.

Da oltre vent’anni non si produceva una scenario simile. Con la prima legge elettorale di impianto maggioritario del 1993, il Mattarellum, era iniziata una lunga stagione di ostentato bipolarismo, caratterizzata dall’alternanza al governo tra il centro-destra e il centro-sinistra. Il risultato del voto consegnava sempre una maggioranza chiara e in pochi giorni il leader della coalizione vincente  Prodi o Berlusconi  formava il nuovo governo. Nel 2013 il successo dei Cinque Stelle ha spezzato questo equilibrio e il sistema bipolare si è di fatto trasformato in un sistema tripolare. Sul finire della scorsa legislatura è arrivata poi la classica ciliegina sulla torta, con l’approvazione di una legge elettorale, il Rosatellum, sostanzialmente proporzionale: il prevedibile risultato è stata la mancanza di una maggioranza in parlamento, accompagnata da una ritrovata frammentazione partitica.

«Inizia oggi la Terza Repubblica, quella dei cittadini», ha esultato Luigi Di Maio il 4 marzo. La realtà, però, sembra ben diversa e basta aprire i giornali o ascoltare i tg per rendersene conto.

Trattative, accordi, contratti, spartizioni, caminetti, convergenze: il lessico dei politici si è presto adeguato al clima proporzionale che caratterizza l’Italia del 2018.

Non passa giorno che una nuova dichiarazione non rimescoli le carte e non riporti la giostra dei compromessi al punto di partenza. Salvini e Di Maio si accordano e poi litigano, Berlusconi detta le sue condizioni, Meloni prova a mediare, Renzi costringe il Pd all’opposizione, Martina rivendica il suo nuovo ruolo di segretario. Anche se nessuno è disposto ad ammetterlo, l’Italia sta lentamente sprofondando in una palude da Prima Repubblica. Tutto sembra muoversi, ma in realtà ristagna nei soliti discorsi e nelle solite posizioni. Ci si avvicina, ci si allontana: il risultato finale è a somma zero, che si faccia o non si faccia il governo. E questo balletto, con il “tripolarismo bloccato” saltato fuori dalle urne, può purtroppo continuare in eterno, senza che venga approvata una sola riforma.

Ma non è soltanto la paralisi dei rapporti tra i partiti a rimandare alla Prima Repubblica. Si rispolverano  e sembra incredibile  persino le formule astruse e sofisticate dell’epoca della partitocrazia pre-berlusconiana. Osservando le manovre di Di Maio, che ha lanciato segnali di apertura tanto al Pd quanto alla Lega, alcuni osservatori hanno ricordato la politica dei “due forni” di andreottiana memoria. «Se devo comprare il pane  teorizzava Andreotti  e ho nella mia stessa strada due forni e uno di questi me lo fa pagare caro o mi dà un prodotto scadente, vado dall’altro». La Dc occupava allora il centro della scena politica, e si rivolgeva di volta in volta a destra o a sinistra, a seconda delle convenienze del momento e del clima che si respirava nel Paese. Negli anni Sessanta l’alternativa era tra il Partito socialista a sinistra e il Partito liberale a destra; negli anni Settanta i fornai erano invece i socialisti di Craxi e i comunisti di Berlinguer. Di Maio, rivolgendosi indifferentemente a due partiti molto diversi come Pd e Lega, sembra seguire questa strada, a conferma del posizionamento centrista che i Cinque Stelle hanno assunto negli ultimi mesi: la loro posizione post-ideologica somiglia sempre di più a una qualche strana forma di neocentrismo, disposto per sua natura ad abbracciare, all’occorrenza, qualsiasi posizione.

L’altra formula tornata di moda è quella dei “due vincitori”, coniata da Aldo Moro nel 1976. In quell’occasione la Dc aveva raggiunto il 38,7 per cento, mentre il Pci era balzato al 34,3 per cento, il suo massimo storico: di fatto, una doppia vittoria. Moro si impegnò allora nella difficile operazione di portare i comunisti al governo, affrontando resistenze interne e internazionali e pagando infine con la sua stessa vita quel tentativo. Oggi i due vincitori sono i Cinque Stelle e la Lega, gli alleati più naturali tra le forze in campo: il loro avvicinamento è però bloccato da Berlusconi, che vincola Salvini al patto elettorale del centro-destra e costringe Di Maio a porre veti sul suo nome e la sua storia.

La Terza Repubblica ci ha dunque riportati alla Prima.

Ai suoi riti, alle sue contraddizioni, alle sue formule. Spingendo il parallelismo alle estreme conseguenze non dovremmo sorprenderci se un governo alla fine si trovasse, per un colpo di genio di uno dei leader in campo o magari pescato dal cilindro di Mattarella, che la Prima Repubblica l’ha nel sangue. Non dovrebbe sorprenderci perché durante la Prima Repubblica una qualche soluzione si trovava sempre. Però. C’è un però: per fare che cosa?

Nell’immobilismo totale delle posizioni dei partiti ogni schema sembra essere saltato, sacrificato sull’altare del raggiungimento del potere. Le visioni di prospettiva e le promesse elettorali appaiono superate dagli interessi della contingenza: un falò a fuoco lento che, inesorabile, carbonizza i progetti, le idee, le proposte di riforma. Grillini e leghisti, ad esempio, si contraddicono ogni giorno: ieri nemici giurati, oggi dispensatori di aperture reciproche. Tutti sembrano disposti a tutto, e non solo perché i due principali leader in campo, Salvini e Di Maio, si dimostrano giorno dopo giorno fini strateghi della politica, con mosse e contromosse da scacchisti. Il problema è ben più profondo, e riguarda la ragione stessa del “fare politica” come impegno per gli altri, annullato negli ultimi tempi dalla smania di dimostrarsi  semplicemente  più forti dell’avversario. Il potere per il potere; il governo per il governo, a qualsiasi costo: nulla più.

I grandi partiti del Novecento  Pci e Dc su tutti  erano portatori di ideologie forti, radicate, profondamente alternative, ricche di storia e di prospettive: anche per questo il loro progressivo avvicinamento si rivelò tanto difficoltoso e traumatico. I partiti di oggi sono invece semplici comitati elettorali al servizio del leader di turno, la cui convergenza non può che portare alla somma aritmetica dei rispettivi programmi a breve termine. La Prima Repubblica, insomma, è arrivata a noi come mero paradigma di formule ed espressioni lessicali. Un contenitore svuotato della sostanza di allora. Altro che compromessi. Altro che riforme.

Michele Pinto
Studente di giurisprudenza. Quando non leggo, mi guardo intorno e mi faccio molte domande.

Commenta