Del: 10 Aprile 2018 Di: Letizia Gianfranceschi Commenti: 0

Il destino politico di Luiz Inácio da Silva si conclude nel peggiore dei modi, con una condanna in secondo grado a 12 anni di carcere. L’accusa è di quelle destinate a macchiare l’immagine dei vecchi leader come lui: corruzione, per aver ricevuto in regalo un appartamento da parte di una ditta di costruzioni. Proprio lui che era stato un presidente amatissimo – e non è un dato secondario – in un paese, il Brasile, che è il più vasto e popolato dell’America Latina, destinato a diventare un riferimento politico e culturale ma rimasto ancora nell’ombra. Sarà stato il suo passato da metalmeccanico, il fatto che abbia imparato a leggere a 14 anni e che, nonostante questo, sia riuscito a diventare presidente, oppure solo il suo aspetto carismatico. Fatto sta che Lula, come tutti lo chiamano, è stato a lungo il simbolo del miracolo brasiliano. La sua presidenza (2003-11) ha cambiato un paese dalle complessità molteplici.
Dopo una dittatura ventennale relativamente blanda rispetto alle altre del subcontinente, caratterizzata da un minore livello di violenza e dal tentativo del regime di mantenere una parvenza di legittimità istituzionale, il ritorno alla democrazia nel 1985 non aveva messo fine all’instabilità politica ed economica del Brasile. Nel 1980 il regime consentì la riorganizzazione dei partiti nell’ambito della politica di apertura che doveva facilitare la transizione alla democrazia. Fu allora che Lula fondò il Partido dos Trabalhadores (PT), la cui base sociale era il sindacalismo, il mondo da cui lo stesso leader proveniva.

L’ascesa politica di Lula risale ad un momento nel quale il paese aveva bisogno di cambiamento, non solo per allontanare lo spettro del monopartitismo antidemocratico, ma soprattutto perché rimanevano irrisolti i problemi di povertà e disuguaglianza e le questioni sociali.

A queste istanze, non seppe rispondere neanche il governo di Fernando Henrique Cardoso, ex ministro delle finanze, che aveva puntato tutto sull’apertura e la modernizzazione economica attraverso una serie di riforme di stampo neoliberale.
Così come Chávez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia, Rafael Carrea in Ecuador, Néstor Kirchner in Argentina, Tabaré Váquez in Uruguay, anche Lula aveva vinto le elezioni nel 2003 sfruttando il fermento politico che esisteva all’epoca in America Latina. Si trattava dell’onda rosa, un fenomeno politico caratterizzato dal ritorno al potere delle sinistre latinoamericane con partiti che aspiravano ad essere meno ideologici e più pragmatici di quelli intensamente legati al marxismo degli anni Sessanta.
Lula è stato il presidente più controverso del Brasile democratico. La sua abilità politica consiste nell’aver saputo dialogare con tutti.
Durante la sua campagna elettorale del 2002, aveva parlato a tutti – indistintamente – dei lavoratori, dei contadini sem terras, degli abitanti delle favevals, dei bambini di strada, promettendo a tutti un tetto e tre pasti al giorno. Mantenne la parola. E, pur avendo parlato a tutti degli ultimi, era consapevole di aver bisogno del consenso dei ceti medio-alti per essere eletto e, soprattutto, per governare. Per questo decise di abbinare alla politica di rigore economico inaugurata da Cardoso una maggiore attenzione all’agenda sociale.
Il lulismo è diventato così espressione di una sinistra che pur non avendo come obiettivo la rifondazione dello Stato – e differenziandosi così dalle forme più radicali – intendeva colmarne alcune lacune attraverso programmi sociali non in grado di intaccare l’oligarchia.

Oggi, da condannato, Lula accusa i giudici di persecuzione, anche in vista delle presidenziali previste per il prossimo ottobre, e rivendica il merito per le politiche sociali:

Hanno voluto togliere di mezzo l’unico presidente senza titolo scolastico che più ha fatto per i poveri di questo Paese, che più ha aperto le porte dell’università a chi prima non poteva permettersela. Hanno avuto fastidio di vedere i poveri mangiare la carne tutti i giorni, e prendere l’aereo!

In realtà, la questione è più complessa. Bolsa Familia esemplifica tutti i buoni propositi e, al contempo, le contraddizioni di questo programma economico redistributivo. Questa politica sociale, che prevedeva il trasferimento di fondi alle famiglie purché si impegnassero a mandare i figli a scuola, è servita ad includere i brasiliani più poveri nel mercato dei consumi, senza estendere i diritti sociali e la protezione degli stessi; senza aumentare i servizi pubblici, senza rendere la sanità, l’istruzione e il trasporto pubblico più accessibili. Secondo l’economista Lena Lavinas, autrice del libro The Takeover of Social Policy By Financialization – The Brazilian Paradox, il programma lulista non era riuscito a ridurre il grande abisso sociale perché anche se grazie a Bolsa Familia in ogni casa brasiliana c’era un televisore, la qualità della vita delle classi popolari rimaneva molto inferiore a quella delle classi medie.
Stesso risultato ebbero altre iniziative come Fome Zero e Minha Casa Minha Vida.
Nonostante questo, a Lula va riconosciuto il merito di aver riportato le questioni sociali nell’agenda politica del paese. Durante il suo governo l’economia brasiliana era in buona salute, complice anche la decade dorada – il periodo di crescita economica legato all’aumento del prezzo delle materie prime esportate, soprattutto soia e minerali.

Anche se all’universalizzazione dei consumi non era corrisposta un’estensione dei diritti sociali, Lula non è stato un cattivo presidente.

Non si spiegherebbe, altrimenti, perché alla fine del suo secondo mandato poteva godere ancora dell’80% dei consensi. Dopo la fine della sua presidenza, il PT era stato riconfermato e la sua delfina, Dilma Rousseff, aveva vinto le elezioni per ben due volte consecutive.

Il mito politico di Lula è rimasto intatto anche quando Dilma è diventata il parafulmine delle frustrazioni legate ai problemi economici e alla corruzione dilagante e il Parlamento ha votato in favore della sua destituzione, con l’accusa di aver truccato il bilancio del 2014. Il lento abbattimento del mito politico di Lula è cominciato nel 2016, quando l’ex leader era stato interrogato nell’ambito dello scandalo Petrobras, l’inchiesta sulla compagnia petrolifera che ha pagato oltre 2 miliardi di dollari in tangenti a gran parte della classe politica brasiliana.
Finché era indagato per sospetto occultamento di beni e riciclaggio di denaro, Lula poteva ancora sperare di salvare la propria immagine.

Adesso la sua sopravvivenza politica è legata al sospetto che si tratti di una sentenza ad hoc, volta a scongiurare la sua partecipazione alle presidenziali del prossimo ottobre.

La condanna, che lo rende ineleggibile, è difficile da perdonare a chi fa dell’onestà la propria bandiera. Il destino giudiziario di Lula non potrà fermare la sua definitiva demistificazione. Poco o nulla è rimasto della sua lotta democratica contro le disuguaglianze.

Letizia Gianfranceschi
Studentessa di Relazioni Internazionali. Il mondo mi incuriosisce. Mi interesso di diritti. Amo la letteratura, le lingue straniere e il tè.

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