Del: 12 Maggio 2018 Di: Redazione Commenti: 0

Federico Riccardo

Silvio Berlusconi aka Toni Servillo, per tornare a convincere gli italiani, si finge napoletano e chiama una casalinga a caso, il cui numero viene rintracciato dalle Pagine Bianche. La stordisce di informazioni, finché la casalinga cede e si fida del venditore anonimo. Non è tanto il paradosso dell’elettore medio italiano, ma c’è dell’altro: Servillo che interpreta il milanese Berlusconi, il quale deve fingere di usare l’accento napoletano. Anche questo è Sorrentino. Loro 2, in uscita nelle sale italiane dal 10 maggio, è il seguito giusto, il seguito che dà giustizia al “ciarpame senza pudore”, come direbbe Veronica Lario, narrato nel primo capitolo. Loro 2 è un vero film narrato nello stile Sorrentino. Dimenticate il ritmo alla Wolf of Wall Street fatto di festini e cocaina e tornate al Divo Andreotti: lo stile veloce e spietato degli assassinii e degli attentati diventa quello ancora più veloce delle raccomandazioni e delle marchette.

Loro 2 parla finalmente di Berlusconi e non più del tarantino Sergio Morra (Riccardo Scamarcio). Questo punto di forza innesca però una riflessione: dove va a finire realmente Morra? Lo vediamo marginalmente, arriva a conoscere Berlusconi, gli porta le ragazze per una festa e subito dopo è triste su un cavallo della immensa giostra privata del Presidente. Quello che può apparentemente sembrare come un passaggio di consegne – il protagonista che da Scamarcio diventa Servillo, il mattatore che da Morra diventa Berlusconi – rischia di creare non proprio uno stordimento, ma un piccolo fastidio. Per fortuna, Sorrentino è bravo nell’inscenare la vera ragione di questo film: la rappresentazione della solitudine di Berlusconi, che si addormenta alle feste, che divorzia con Veronica Lario dopo una lite in presenza della servitù di casa, e che viene rifiutato da una ventenne perché lo reputa “un uomo dall’alito di un vecchio”. 

È la solitudine tipica dei protagonisti dei film di Sorrentino: il vuoto, la decadenza, la consapevolezza di “non potere perdere tempo a fare cose che non mi va di fare” di gambardelliana memoria.

Il tutto sfocia poi nella rappresentazione della tragedia dell’Aquila del 2009, partendo dalla pantomima inscenata da Berlusconi nei confronti degli sfollati, ad  una serie di immagini molto toccanti narrate in chiave quasi neorealistica, carrellate di volti di vigili del fuoco e reperti archeologici messi in salvo dalle gru. Quasi a voler creare un parallelismo con La grande bellezza e in particolare con lo squallore che entra nell’umiltà: la santa invitata alla cena radical chic, per intenderci.

Questo secondo capitolo non era tanto da ritenersi necessario in quanto proseguimento del primo – non ci sono cose che non si comprendono se non si è visto il primo film – quanto per ribadire la volontà antinarrativa di Paolo Sorrentino, che si trasforma nella rappresentazione del personaggio, delle sue forze e delle sue debolezze, le stesse di milioni di italiani influenzati da un’aurea potente e quasi incontrastata. Poco importa che sia “tutto documentato, tutto arbitrario” o realmente esistito.

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