Del: 15 Maggio 2018 Di: Redazione Commenti: 0

Valentina Nicole Savino

Il filosofo Erich Fromm, nel suo saggio Fuga dalla libertà, fornisce una chiave interpretativa ancora valida nell’analisi delle nevrosi dell’uomo contemporaneo, distinguendo un libertà negativa, che egli chiama “libertà da”, e una positiva che descrive invece come “libertà di”, inscritte nel processo di individuazione della persona. Egli elabora una lettura storica del processo psicanalitico: il Medioevo, il Protestantesimo e il mondo contemporaneo sarebbero inscrivibili, infatti, in uno stesso filo rosso che segna una condizione di progressivo isolamento dell’uomo, aprendo la strada allo sviluppo di diversi “meccanismi di fuga”.

Secondo il sociologo la condizione dell’uomo medievale è quella di un uomo che, pur non essendo libero nel senso moderno del termine, non è né solo né isolato: il fissismo sociale e l’appartenenza a una ben precisa tradizione familiare agirebbero come una cappa di vetro in grado di metterlo al riparo dell’angoscia del sentimento di non appartenenza, che caratterizzerebbe invece l’uomo contemporaneo e che troverebbe le sue radici in epoca protestante. Nel XVI secolo infatti l’uomo si configura, nelle dottrine di Lutero e Calvino, come soggetto separato da Dio che ne predetermina le sorti.

Al senso di impotenza e solitudine l’uomo moderno avrebbe reagito, secondo Fromm, con tre modalità.

Il primo meccanismo di fuga individuato è quello dell’autoritarismo: l’individuo rinuncia all’indipendenza del proprio essere per fondersi con qualcuno o qualcosa al di fuori di se stesso, cercando nuovi “legami secondari” in sostituzione dei legami primari perduti. L’autoritarismo può configurarsi a sua volta come tendenza masochistica in cui l’individuo, provando a ridurre a nulla il proprio “io” individuale, assottiglia e assopisce il suo sentimento angosciante di separazione; oppure come tendenza sadistica, che rende l’individuo dipendente dall’oggetto del proprio dominio.

Il secondo meccanismo di fuga preso in considerazione è quello della distruttività, radicata nell’incapacità di sopportare la solitudine e l’isolamento: distruggendo il mondo esterno l’individuo sfugge, difatti, al potere soverchiante dell’oggetto, adottando l’illusione di eludere l’angoscia che questo gli provoca.

Infine, la terza via che il sociologo indica è quella del conformismo da automi: l’individuo in questo caso cessa di essere se stesso, adottando il tipo di personalità che i modelli culturali gli offrono — operazione mimetica che sembra cancellare, almeno negli intenti, il divario tra se stessi e il mondo: significativo è il paragone tracciato tra questo meccanismo e la colorazione protettiva che assumono certi animali (come il camaleonte) in ambienti ostili.

Fromm estenderà poi il discorso, applicando queste categorie psicanalitiche all’analisi delle dittature e provando a delineare anche una lettura psicologica delle indagini sui grandi sconvolgimenti politici del nostro tempo.

Ciò che tuttavia rimane affascinante, a distanza di mezzo secolo dalla produzione scritta di questo intellettuale, è l’attualità della sua analisi nel nostro presente, dove libri come La società dello Spettacolo di Guy Debord o Modernità Liquida di Zygmunt Bauman non hanno ancora dismesso la propria eco; e per ora non accennano a farlo, nel mare di bit digitali tra cui siamo, a seconda delle volte, immersi o sommersi.

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