
Un politico d’altri tempi. Uno statista audace. Un innovatore della politica. Un premio Nobel per la pace. Uno che sfuggiva alle logiche del mondo bipolare tipiche della guerra fredda. Proprio lui che, da sindaco di Berlino ovest, aveva assistito alla costruzione di un muro che sarebbe durato 28 anni diventando il simbolo della contrapposizione tra i due blocchi. Willy Brandt era tutto questo ma non soltanto questo.
Nel luglio scorso, in piena campagna elettorale, in alcune città tedesche sono comparsi alcuni manifesti che recitavano: “Willy Brandt deve rimanere cancelliere”.
Strano, ne è passato di tempo da quando il socialdemocratico vinse le elezioni nella Germania ovest. Era il 1969. Vent’anni dopo, nel 1989, il crollo del muro aveva preannunciato l’implosione dell’Unione sovietica. Non era forse quella la fine della storia annunciata dal politologo Fukuyama? Un esito che avrebbe dovuto mettere fine al mondo bipolare, dove tutto era politica e le appartenenze, ai blocchi prima ancora che alle nazioni, erano un fatto ineludibile e irreversibile. La guerra fredda si era conclusa decretando un unico vincitore: gli Stati Uniti, con il loro binomio di democrazia e libero mercato.
Cosa ci fa una figura come quella di Brandt nel mondo politico contemporaneo? In realtà, oggi come allora, Brandt può insegnarci una importante lezione politica.
Con la stessa facilità con la quale avevano gridato alla fine della storia, gli oracoli della politica hanno rivelato il suo ritorno. E con lei sarebbe tornata persino la guerra fredda, poco importa che la Russia non è più l’Unione Sovietica, che gli Stati Uniti sono ancora un impero ma un impero in declino e che il sistema degli Stati sia, anche per questo, più instabile e incerto dei tempi in cui era in piedi la cortina di ferro.
Eppure, i solidi fronti dell’epoca bipolare furono messi in discussione proprio quando Willy Brandt, da cancelliere della Germania ovest, lanciò la sua tanto celebre quanto controversa Ostpolitik, in radicale controtendenza rispetto alla linea dura tenuta dal suo predecessore Adenauer. Questi era un appassionato sostenitore della dottrina del non riconoscimento della Germania est e della conseguente chiusura diplomatica nei confronti di quegli Stati che intrattenevano relazioni con l’altra Germania.
La Ostpolitik è sfuggita alle narrazioni tipiche della guerra fredda e, forse, anche per questo non è stata valorizzata e riconosciuta per quello che era: una politica di distensione, senza idealismi, che non si discostava dalla Realpolitik di tradizione germanica.
Dopo tutto, riorientare la propria politica verso quell’est, congelato ma non dimenticato, rientrava negli interessi della Germania occidentale. Già Kiesinger, predecessore cristian-democratico di Brandt, aveva dichiarato l’intenzione di cercare contatti – umani, economici, culturali – in modo che “le due parti del popolo tedesco non diventassero estranee durante la separazione”. È stato solo con Brandt, tuttavia, che quell’intenzione è diventata concreta, si è fatta politica. All’inizio degli anni Settanta, la sua strategia assunse la forma di una serie di accordi commerciali con i paesi del blocco sovietico; un trattato di non aggressione e cooperazione con il padrone di casa dell’est – l’Unione Sovietica; due incontri, ampiamente pubblicizzati, tra Brandt e il premier della Germania est Willi Stoph, per dimostrare al mondo lo sforzo intra-tedesco alla ricerca di un’intesa.
La politica di apertura verso l’est di Brandt era coraggiosa. Dopo vent’anni di governo della CDU, alcuni gruppi di destra e una parte del popolo tedesco parlava ancora come se la Germania non avesse perso la guerra, come se le nazioni dell’est – la Polonia e la Cecoslovacchia su tutte – non avessero sofferto abbastanza dall’invasione nazista durante la seconda guerra mondiale. Brandt, invece, era consapevole del fatto che tutto ciò era effettivamente avvenuto e che la contrapposizione tra i due blocchi non stava migliorando la situazione delle due Germanie e dei loro abitanti.
Anche se la Ostpolitik non ha determinato direttamente il crollo del muro, che sarebbe avvenuto soltanto nel 1989, il suo contributo nel rilassare le tensioni internazionali fu inestimabile.
Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, nel settembre 1971 l’accordo su Berlino garantiva le condizioni di accesso a Berlino ovest. A Brandt valse il premio Nobel per la pace, mentre a molti berlinesi valse la possibilità di esercitare la propria libertà di circolazione. Come spiegò lo stesso Brandt in occasione della Nobel Lecture:
Small steps are better than no steps at all. When hundreds of thousands of people, after years of separation, were given passes to visit their relatives over Christmas, this, in a nutshell, was the application of the knowledge that there could be a new, only apparent, paradox – and that is improving the situation by recognizing it for what it is.
Non era ancora arrivato il momento della riunificazione, ma questo cambiamento rendeva meno complicata la vita di molti tedeschi. Non era poco.
La lezione che Brandt, con la sua Ostpolitik, può insegnare alla politica internazionale di oggi – divisa dalle divergenze tra Stati Uniti e Russia su più fronti, dalle tensioni coreane solo in parte smorzate dagli ultimi avvenimenti, dagli interessi strategici in gioco nel conflitto siriano e in quello yemenita – è che la soluzione ai problemi collettivi implica la cooperazione tra gli Stati al di là delle frontiere, che nessun interesse nazionale può essere isolato dalla responsabilità collettiva di mantenere la pace, che la guerra non è più l’ultima ratio ma semplicemente una irratio.