Il terremoto politico degli ultimi giorni consegna all’Italia un sistema impazzito, letteralmente in frantumi. Mentre trascorrevano freneticamente le più drammatiche ore per la Repubblica, almeno dai tempi di Tangentopoli e delle stragi della mafia, i venti di burrasca sono arrivati fin sul Colle del Quirinale, aprendo un’inedita e grave crisi istituzionale tra il Presidente della Repubblica e i maggiori partiti del paese. Mentre la Borsa di Milano affondava inesorabilmente e lo spread schizzava a livelli di allarme, i politici riesumavano il lessico degli anni bui: la messa in stato d’accusa per il Capo dello Stato (poi ritirata in un batter d’occhio nell’imbarazzo generale e nell’evidenza dell’insensatezza e dell’avventatezza di una tale proposta), le proteste di piazza, la “passeggiata su Roma”. Anche se i fatti e la schizofrenia di alcuni politici hanno reso questa vicenda oramai superata, vale la pena ripercorrerla “a bocce ferme”, per trarne qualche spunto di riflessione.
La causa scatenante del caos è stata la scelta di Mattarella, domenica sera, di far valere pubblicamente il suo veto sulla persona di Paolo Savona, indicato da M5S e Lega per il ministero dell’Economia.
Costituzione alla mano, il Presidente Mattarella ha esercitato i propri poteri, evidenziando che “il presidente della Repubblica svolge un ruolo di garanzia, che non ha mai subito, né può subire, imposizioni”.
Ancor più delle motivazioni politiche del no a Savona, appare evidente che nella decisione di Mattarella ha pesato enormemente la procedura seguita da Salvini e Di Maio. I due, dopo aver affermato pubblicamente di avere già deciso di indicare Savona all’Economia — in netto contrasto con l’art. 92 della Costituzione che prevede la sua nomina da parte del presidente della Repubblica — hanno rifiutato qualsiasi mediazione e hanno posto il Quirinale di fronte a un ricatto oggettivamente senza precedenti nella storia della Repubblica: o Savona ministro o niente governo. Un ricatto, del resto, al quale si è prestato anche il premier incaricato Conte, che ha prontamente rimesso l’incarico di fronte all’obiezione sul nome di Savona. Un’alternativa secca, dunque, che ha spinto Mattarella a non accettare la compressione dei suoi poteri paventata dai due giovani leader e a far valere le sue prerogative. E questo, sia ben chiaro, al di là delle motivazioni politiche. Alcuni osservatori hanno sollevato dubbi sulla correttezza del veto di Mattarella, sostenendo che in passato le obiezioni di questa natura furono sollevate solo di fronte a incompatibilità oggettive: Previti avvocato di Berlusconi che non può fare il ministro della Giustizia e Gratteri, un magistrato, che non può ricoprire il medesimo ruolo per evitare un cortocircuito tra poteri dello Stato. La costituzione, in ogni caso, non pone alcun limite esplicito al potere del presidente di rifiutare la nomina di un ministro.
Dal punto di vista dell’opportunità politica la scelta del Presidente Mattarella è stata molto rischiosa e, secondo alcuni, persino autolesionista. Il no all’ottantaduenne Savona è stato motivato dalle idee dell’economista sull’Europa e sull’euro: perché era visto, dal Quirinale e soprattutto dagli investitori esteri, come “un sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o addirittura inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro”.
Era evidente a tutti che l’impuntatura sul nome di Savona da parte di Salvini (al quale si è accodato Di Maio, consapevole di essere stato messo in un angolo e di non avere più vie d’uscita) fosse meramente strumentale e volta a far fallire il governo giallo-verde.
Mattarella ha però ritenuto di non poter soprassedere di fronte all’insensata pretesa di Lega e Cinque Stelle di imporre una nomina al Quirinale. La riaffermazione dei poteri del Quirinale, insomma, ha prevalso sul valore politico della scelta, anche a costo di prendere una decisione che tirasse la volata a Salvini alle prossime elezioni. La forma ha prevalso sulla sostanza.
E infatti il problema che si è aperto (anzi riaperto) domenica sera è più formale che sostanziale, e consiste nella struttura stessa della nostra costituzione. Da almeno trent’anni si assiste a un progressivo rafforzamento del ruolo del governo, al quale sono stati assegnati anche importanti poteri normativi (come i decreti legge). L’inesorabile personalizzazione della politica, con leader sempre più forti e influenti, è stata favorita soprattutto da vent’anni di sistema maggioritario, durante i quali gli elettori avevano la sensazione di votare direttamente il presidente del Consiglio. Questa crescente forza del premier e dei leader di partito si è trovata a contrastare più volte con la presidenza della Repubblica e con gli ampi poteri che la costituzione attribuisce al Quirinale. Nel sistema italiano, di fatto, non spetta al presidente del Consiglio nominare i ministri: questo dato di fatto provoca, inevitabilmente, frequenti attriti e litigi, che rendono inefficiente l’azione del governo e l’intero funzionamento delle istituzioni. Già in Assemblea Costituente molti autorevoli giuristi sollevarono dubbi su questo tipo di procedura. Il presidente dell’Assemblea, il comunista Umberto Terracini, dava per scontato che si dovessero contenere i poteri del primo ministro, perché “è assurdo pensare che il Presidente della Repubblica possa presumere di scegliere egli stesso i ministri”. Ma non solo: anche la crisi istituzionale del 1992, quando le opposizioni chiesero l’impeachment per l’allora Capo dello Stato Francesco Cossiga (che poi si dimetterà dopo pochi mesi con un discorso in diretta tv, che riguardava, tra le altre cose, i rapporti Quirinale-potere esecutivo). In particolare: le “esternazioni” che avevano trasformato Cossiga in un attore politico e le sue presunte interferenze nei confronti del Parlamento e del governo, che facevano supporre “modificazioni istituzionali e costituzionali prodotte in modo strisciante”.
I poteri che la costituzione attribuisce al presidente della Repubblica sono eccessivi?
La questione è annosa, e senza una riforma costituzionale capace di rivedere in modo netto i limiti delle prerogative del Quirinale e di bilanciare i suoi poteri alla luce del contesto politico attuale — che richiede rapidità di decisioni e maggiori margini di scelta e azione per il premier — non sarà risolta. I nulla di fatto nel campo delle riforme e l’assenza di modifiche dell’assetto costituzionale hanno provocato frequenti incomprensioni e scontri istituzionali; talvolta anche molto gravi, come quello tra Mattarella e Salvini-Di Maio. Gli attori politici, con una buona dosa di irresponsabilità, finiscono sempre più spesso con lo sparare a zero sul Quirinale, l’istituzione tradizionalmente più amata nel paese, l’unica che si è dimostrata in grado di garantire un livello accettabile di concordia e condivisione nazionale, in un paese come l’Italia, attraversato da forti divisioni e profonde fratture. A colpi e a spallate, un po’ per volta, i partiti stanno delegittimando persino la Presidenza della Repubblica: del sistema italiano e della tanto evocata “comunità nazionale”, di questo passo, non resteranno che macerie. E chi ci sarà dopo a ricostruire?