Il 16 giugno 2012, in un discorso tenuto ad Oslo difronte al Norwegian Nobel Committee, Aung San Suu Kyi – simbolo della resistenza birmana – disse che nei 15 lunghi anni trascorsi agli arresti domiciliari, quando era una prigioniera politica sotto il regime dei militari, spesso aveva la sensazione di non fare più parte del mondo reale. All’epoca, disse, il mondo delle persone libere non le apparteneva.
Ne è passato di tempo da allora, e ancor di più dal 1991, anno in cui all’attuale Consigliera di Stato e leader de facto dell’amministrazione a guida civile del Myanmar fu consegnato l’ambito premio “per la sua lotta non-violenta per la pace e per i diritti umani”. Adesso che non vive più confinata in casa, deve prendere atto di alcuni fatti. Il primo, ultimo in ordine di tempo, riguarda la condanna di due giornalisti birmani di Reuters a 7 anni di prigione per aver violato una legge, risalente all’epoca coloniale, sui segreti di Stato durante il loro lavoro d’inchiesta sulla situazione nello stato di Rakhine. I due giornalisti erano in possesso di documenti della polizia e stavano investigando sulle atrocità subite dai musulmani Rohingya. La condanna ha segnato un giorno tragico per la stampa libera di tutto il mondo, ma non sembra aver scosso più di tanto la leader. Aung San Suu Kyi, intervenuta in occasione World Economic Forum di Ha Noi, ha difeso la decisione dei giudici, sostenendo che la condanna non aveva nulla a che vedere con la libertà di stampa:
They were not jailed because they were journalists, they were jailed because… the court has decided that they have broken the Official Secrets Act.
Eppure Amnesty International, nel suo ultimo rapporto, denuncia che nel corso dell’anno “le attività degli organi di informazione indipendenti sono state sempre più limitate e in alcuni casi i giornalisti sono stati oggetto di azioni penali per aver svolto il loro lavoro”.
Il secondo fatto spudoratamente ignorato da Aung San Suu Kyi riguarda la campagna di violenze scatenato dalle forze di sicurezza contro la minoranza etnica Rohingya, descritta dall’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite come “pulizia etnica”.
Neanche di fronte alla sistematica violazione dei diritti di questi cittadini su base discriminatoria la signora Suu Kyi ha ritenuto di dover prendere posizione. Solo negli ultimi giorni ha accettato di commentare, limitandosi a riconoscere che “la crisi dei Rohingya poteva essere gestita meglio”.
L’ultima icona pop della politica internazionale ha deluso tutte le aspettative, non solo quelle della gente comune che l’aveva mitizzata, ma anche quelle nutrite da studiosi ed esperti.
Nel 1990, in un paper pubblicato su Asian Survey, il professore di scienza politica Josef Silverstein evidenziava come Aung San Suu Kyi condividesse la fiducia di suo padre nei confronti della democrazia e del raggiungimento dei risultati politici con mezzi pacifici. Era proprio questa l’immagine che la giovane leader dava di sé in quel momento, tanto che i militari saliti al potere nel 1988 temevano la sua popolarità e non sapevano come affrontarla.
Figlia di un eroe nazionale che aveva combattuto per l’indipendenza del popolo birmano e che aveva pagato per questo con la propria stessa vita, Aung era il simbolo di una Birmania nuova.
Nel 1996, in un articolo pubblicato su Pacific Affairs, rivista dell’università della British Columbia, lo stesso professor Silverstein definiva Aung San Suu Kyi “l’unica voce dominante in difesa della libertà e del governo democratico”.
Oggi viene da chiedersi a chi siano riservate la libertà e la democrazia di cui parlava l’attuale consigliera di Stato quando ancora non ricopriva cariche politiche.
Capita spesso, in politica e non solo in letteratura, che la realtà non riesca a tenere il passo del mito. Prima di essere arrestata, Aung San Suu Kyi non aveva ancora avuto il tempo di esporre i propri obiettivi politici e un’efficace strategia in grado di realizzarli che era già diventata un’icona pop. Si era concentrata sulla necessità di creare un’immagine di sé tale per cui la gente potesse associarla all’idea di un sistema politico basato sulla volontà popolare. Di quale sistema si sarebbe trattato nessuno lo sapeva.
È pur vero che la Suu Kyi, da consigliera di stato, è costretta a condividere il potere con i militari e che il conflitto armato interno tra l’esercito e i gruppi armati etnici rendono la situazione estremamente delicata, in un Paese nel quale il processo di pace sembra essersi interrotto. Tuttavia, di fronte alle gravi limitazioni alla libertà di espressione, alla persistenza di un regime simile all’apartheid nel Rakhine che rende impensabile qualunque rimpatrio sicuro e dignitoso dei Rohingya fuggiti in Bangladesh e alle forti limitazioni arbitrarie all’accesso degli operatori umanitari, Aung San Suu Kyi avrebbe dovuto indignarsi pubblicamente, prendere la parola, fare pressioni sul Capo di Stato e sugli altri vertici politici.
Come ha scritto Phil Robertson, Deputy Director di Human Rights Watch per l’Asia, la leadership implica di dover fare delle scelte, non di rimanere in silenzio.