Del: 28 Ottobre 2018 Di: Letizia Gianfranceschi Commenti: 0

Cosa resta di Jamal Khashoggi, il giornalista ucciso nel consolato dell’Arabia Saudita di Istanbul?
Restano le sue parole, la sua visione del Medio Oriente e del mondo arabo.
Khashoggi ne aveva di cose da dire.
Ad esempio, nell’ultimo editoriale scritto per il Washington Post, dal titolo Ciò di cui il mondo arabo ha più bisogno è la liberta d’espressione, Khashoggi notava che “il mondo arabo sta affrontando la propria versione della cortina di ferro, imposta dagli attori interni che gareggiano per il potere”. Si auspicava, quindi, la creazione di qualcosa che potesse servire al mondo arabo come Radio Free Europe era servita all’Europa durante la guerra fredda. In pratica, “una versione moderna dei vecchi mezzi di comunicazione che permetta ai cittadini di informarsi sugli eventi globali”, ma anche “una piattaforma per le voci arabe”, libere e indipendenti dal controllo dei governi. Una voce come la sua. Anche per questo, la maggior parte dei suoi articoli venivano pubblicati sia in inglese che in arabo.

Khashoggi guardava alle fragilità del Medio Oriente con gli occhi di chi lo conosce e poi le raccontava a tutti gli altri.

Analizzava con lucidità i conflitti che straziano il Medio Oriente, da reporter esperto e competente.
In un articolo pubblicato lo scorso febbraio su MiddleEastEye, denunciava la politica iraniana sulla guerra in Siria accusando Teheran di voler ridisegnare la mappa geopolitica della regione con il sangue e il settarismo:

Iran looks at the region, particularly Syria, from a sectarian angle. The militias Tehran is relying on, some of which come from as far as Afghanistan, are sectarian. They raid Syrian villages with sectarian slogans, bringing to life conflicts from over a thousand years ago. With blood and sectarianism, Iran is redrawing the map of the region.

Sullo Yemen avvertiva che l’Arabia Saudita stava perdendo la dignità, intrappolata comera in un conflitto che doveva essere una guerra chirurgica contro i ribelli houthi e che si sta rivelando un pantano senza via d’uscita. Secondo Khashoggi, per salvare la faccia Riyadh deve mettere fine alla guerra:

The longer this cruel war lasts in Yemen, the more permanent the damage will be. The people of Yemen will be busy fighting poverty, cholera and water scarcity and rebuilding their country. The crown prince must bring an end to the violence and restore the dignity of the birthplace of Islam.

Khashoggi guardava all’Arabia Saudita con gli occhi di chi non avrebbe voluto nessun’altra casa se non quella, come lui stesso aveva scritto.

Una casa, però, che aveva dovuto lasciare: solo in esilio avrebbe potuto alzare la voce.

Repressivo e  insopportabile, è così che secondo Khashoggi era diventato il suo paese negli ultimi tempi. Lo raccontò in questo editoriale, pubblicato nel settembre 2017 sul Washington Post. Quella volta ai lettori aveva spiegato che lArabia saudita non è sempre stata così. Una volta salito al potere, il principe Mohammed bin Salman aveva promesso riforme socioeconomiche; tuttavia negli ultimi mesi il governo aveva promosso un’ondata di arresti per moderare tanto i riformisti liberali quanto i leader religiosi conservatori, che considera due facce dell’estremismo da sradicare. Eppure, secondo lui il processo di trasformazione economica e sociale doveva essere inclusivo: non poteva prescindere dagli intellettuali, dai religiosi, dagli economisti e da tutti gli altri che erano stati coinvolti nell’ondata di arresti. Khashoggi non poteva più tacere, perché avrebbe significato “tradire coloro che patiscono in prigione”. Oggi, invece, dimenticare il suo racconto del mondo arabo significherebbe tradire la sua memoria.

Letizia Gianfranceschi
Studentessa di Relazioni Internazionali. Il mondo mi incuriosisce. Mi interesso di diritti. Amo la letteratura, le lingue straniere e il tè.

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