Del: 31 Ottobre 2018 Di: Redazione Commenti: 0

Lucrezia Tavella

Qualche tempo fa mi è capitato di chiacchierare con un docente di letteratura italiana a proposito dell’ultimo libro che stava leggendo: era L’incubo di Hill House di Shirley Jackson, pubblicato da Adelphi nel 2016 nella terza edizione, con quella copertina blu cobalto e quell’immagine di casa fatiscente, fotografata da Seph Lawless, che non ha niente da invidiare alle più famose illustrazioni di Dan MacCarthy. Con un certo sgomento appresi una notizia triste: «Non l’ho ancora finito –  chiosò quello con una pronuncia blesa come quella di Red in uno dei racconti della scrittirce, Paranoia – però non mi sta piacendo tanto…È un po’ frivolo». Sul momento non protestai contro quel giudizio ingeneroso; giorni dopo però capii che era stata pronunciata una parola magica: frivolo, derivato dal latino frivolus. Fragile, poco serio, di scarsa importanza, bazzecola. Insomma, un giudizio con cui anche Cicerone avrebbe potuto bocciare le poesie di Catullo.

Se la letteratura non venisse considerata così spesso una semplice frivolezza, un’evasione delle più dilettevoli ma pur sempre superficiale, forse al mondo esisterebbero anche meno ossessioni a ispirarla, e meno paranoie nella mente delle persone.

Para-noie nel senso etimologico del termine, proprio come le voci cinguettanti che riecheggiano solo nella testa di Mrs. Spencer nell’ultimo Paranoia. Se è vero che l’ossessione ispira la letteratura, l’ossessione più forte di Shirley Jackson è la realtà quotidiana – e insieme il modo di viverla, o raccontarla.

Riconosciuta come “la maestra di Stephen King”, che le rivolge la dedica di apertura al romanzo L’incendiaria, Shirley Jackson (San Francisco 1916 – Vermont 1965) vive un’infanzia infelice soprattutto per il rapporto con la madre, che la critica in continuazione per i difetti fisici e la definisce addirittura “un aborto mancato”. Spinta a isolarsi dagli altri,  cresce con un carattere introspettivo e nutre una serie di idiosincrasie che la portano a mediare – con fumo, alcol e antidepressivi – in modo ambivalente tra realtà e finzione letteraria, facendo di lei una delle più grandi scrittrici della letteratura gotica americana. In Italia è conosciuta specialmente per il romanzo L’incubo di Hill House (approdato di recente su Netflix con la serie TV diretta da Mike Flanagan), dove l’indagine sui fenomeni paranormali all’interno di una casa stregata sembra superare i confini del genere horror e diventare un’indagine sui fantasmi della psiche umana. Questo mese Adelphi ha pubblicato Paranoia, un volume che sembra il groviglio biopsichico dell’autrice, al cui interno sono raccolti una serie di racconti postumi e di scritti autobiografici che scandagliano le profondità delle sue ossessioni.

Sono una scrittrice che, a causa di una serie di ingenui e inconsapevoli errori di giudizio, si ritrova con quattro figli e un marito, una casa di diciotto stanze senza una domestica, due alani, quattro gatti e – sempre che sia ancora vivo – un criceto. […] Mentre rifaccio i letti e lavo i piatti e vado in paese a cercare le scarpette da ballo, mi racconto delle storie. Storie su qualunque cosa. Semplici storie. Dopotutto, chi può concentrarsi sui propri gesti mentre passa l’aspirapolvere? Io mi racconto delle storie. […] Mi mantengono attiva, le mie storie. Forse quella sul cesto della biancheria non la scriverò mai – anzi, sono quasi certa che non la scriverò –, ma finché so che lì c’è una storia posso andare avanti a separare i capi bianchi da quelli colorati.

Così nascono storie innanzitutto a partire dalla realtà più comune e banale, cioè a partire dagli oggetti: per Shirley Jackson si intessono sui bicchieri verdi che si pavoneggiano sulla tavola apparecchiata, sulle forchette a quattro e a due rebbi gelose l’una dell’altra, sugli orli delle nuove tendine da cucina che hanno qualcosa che non va, e così per elettrodomestici, luci, vestiti, mobili, ma soprattutto per una casa. Nei suoi romanzi e nei suoi racconti, Shirley Jackson sembra mettere in scena una poetica degli oggetti, per cui la potenza figurale della parola è l’unico strumento capace di trasfigurare la realtà, e di farla vivere nitidamente davanti agli occhi del lettore, come la casa e i fantasmi di Hill House (recentemente è uscita su Netflix la nuova serie TV The Hounting of Hill House diretta da Mike Flanagan). D’altra parte, siccome l’etimologia delle parole viene perlopiù in nostro soccorso, forse non è casuale che “fantasma” condivide la stessa radice di “fantasia” e di φαντάζω (“phantazo”), che hanno entrambi a che fare con l’idea della visione, dell’immaginazione e della figura; e a scanso di equivoci uno dei modi per dire “fantasma” in latino è proprio “imago”.
Tutto ciò che Shirley Jackson nomina della realtà si plasticizza, assume delle connotazioni sia materiche che immaginifiche: L’incubo di Hill House probabilmente non sarebbe un romanzo così magnetico senza – in ordine casuale – la percettività femminile un po’ stucchevole di Mrs. Montague, gli orpelli e le lugubri chincaglierie di Hill House che ne fanno cosa viva, i vestiti di Theodora senza pieghe sulle grucce, il lucido delirio di Eleanor nella sua danza macabra, la tazza di stelle di una bambina nella locanda, etc. etc. Alla fine, se è vero che la frivolezza di Shirley Jackson è tutt’uno con la sua ossessione e con la sua scrittura, impariamo tutti a seguire i suoi demoni che dai frammenti di una porcellana da cucina le fanno scrivere una storia.

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