Cinque mesi dopo la morte, Philip Roth torna a parlarci, e questa volta non ci sono i suoi personaggi a filtrarne la voce: Einaudi, infatti, ha da poco pubblicato Perché scrivere?, una raccolta di saggi ed interviste in cui l’autore ci accompagna in una lettura complessiva della sua scrittura, ma anche dell’America che la sua penna ha raccontato.
In occasione dell’uscita del libro, lo scorso 15 novembre Elena Mortara —docente di lingua e letteratura anglo-americana presso l’Università di Roma Tor Vergata— ha ripercorso le fasi della vita e della produzione di Roth in un incontro dal titolo “L’America amara di Philip Roth”, in riferimento alla sua pungente tragicomicità.
Roth ha saputo raccontare il contesto in cui è nato, la comunità ebraico-americana, con autoironia e un forte spirito critico che se, da una parte, hanno affascinato il mondo intero, dall’altra, forse lo hanno allontanato dalla possibilità di ottenere il Nobel.
Figlio degli anni Trenta, Roth vive fino al primo anno di college a Newark, New Jersey, più precisamente in un quartiere abitato quasi interamente da ebrei. Ha, perciò, avuto modo di vivere da vicino la guerra e ciò che ha significato per la comunità ebraica, ma anche il dopoguerra, gli anni Cinquanta, quel momento di break through degli ebrei-americani in cui essi, pur abitando l’America dal Seicento, si sono trovati ad avere per la prima volta delle voci ed una letteratura riconosciuta a livello internazionale, anche grazie a scrittori come Saul Bellow e Bernard Malamud.
Un bel po’ da sopportare, per un adolescente. Tuttavia, Roth, che non è mai stato uno scrittore politicamente corretto, scrivendo del mondo a cui apparteneva non ha mai mostrato la comunità ebraica come vittima, caratteristica a cui generalmente viene relegata: la sua stessa famiglia è specchio di una comunità mentalmente chiusa e ipocritamente puritana, che si preoccupa soprattutto di tenerlo quanto più lontano dalle tentazioni del mondo moderno. Da questa esperienza familiare Roth esce segnato da un’ambivalenza fra radicamento e bisogno di evasione, dicotomia che sfocerà, dopo un esordio a 26 anni, nell’irriverente e trasgressivo Lamento di Portnoy pubblicato nel 1969. In questo testo l’autore racconta le ossessioni di un trentenne, Alexander Portnoy, che sente forte in sé il contrasto tra educazione etica familiare e pulsione sessuale. Il primo di una serie di personaggi/alter ego che hanno vissuto le sue stesse esperienze, ma che non sono mai esattamente Roth.
D’altro canto, il rapporto tra biografia e finzione letteraria in Roth non ha mai un confine netto. Negli anni Settanta gran parte della sua produzione è rivolta a questo legame, esplorato in libri come La mia vita di uomo. Solo nei primi anni Ottanta approderà al personaggio che lo accompagnerà per diversi anni e in diversi cicli di romanzi, e che invecchierà e si evolverà al passo con l’autore stesso: Nathan Zuckerman. Roth si serve di questa figura per raccontare i traumi e i vizi della sua infanzia, il naufragio prematuro del suo matrimonio, l’arrivo di un successo improvviso e disorientante, ma non solo: andando oltre la sua esperienza individuale, abbattendo i muri di Newark, Roth fa un discorso sul mondo etico, sociale e politico dell’America in cui vive. Un’America dilaniata da scontri razziali, dalla guerra del Vietnam, dal terrorismo, e dall’incontro-scontro di tante etnie e religioni che si riflette, come uno specchio, nella psiche tormentata dei suoi abitanti e dei protagonisti della Trilogia americana (Pastorale Americana, La macchia umana, Ho sposato un comunista)
Quando nel 1997 esce Pastorale Americana, opera con cui è stato riscoperto in Italia, Roth ha scritto quello che può essere considerato il grande romanzo americano: la turbolenta storia americana, dal maccartismo allo scandalo Watergate, sembra fare di tutto per far andare in pezzi la famiglia di un uomo che cerca di rimettere insieme i cocci di una felicità ormai irrecuperabile.
Il messaggio più esplicito, però, ci viene forse da La macchia umana, romanzo in cui Zuckerman, ormai più anziano, diventa ascoltatore ed ha il compito di ricostituire il puzzle delle vite altrui: la realtà umana è imperfetta, una macchia è tutto ciò che lasciamo nell’universo dopo di noi, un’impronta sporca. L’unica perfezione da ricercare è quella della parola.
Perché scrivere, dunque? Per dare un senso, un significato a ciò che vediamo e viviamo, per trarre qualcosa di bello dallo sporco e dall’imperfezione del mondo umano:
Conosco qualcosa fintanto che ne scrivo. Non so nulla quando smetto di scrivere. Penso di essere abbastanza stupido e noioso al di fuori della mia scrittura.