
Nella lingua russa ci sono oggi due termini per indicare chi sussurra: sepcuscii per chi bisbiglia per timore di essere udito, e septun per chi informa segretamente le autorità. «La distinzione affonda le radici nel linguaggio degli anni di Stalin, quando l’intera società sovietica era costituita da sussurratori di un tipo o dell’altro.» Quando, cioè, una parola sbagliata poteva mandare una persona alla morte.
In una società costretta a sussurrare ci sono state però delle voci che si sono fatte portavoce di questo silenzio forzato, tra queste, si leva quella dolce e spietata di Anna Achmatova che tra tutti i poeti russi del XX secolo, è quella che ha dato più forza e vigore alle sofferenze del suo popolo durante gli anni del terrore.
Anna imparò a leggere sui libri di Tolstoj. A undici scrisse la sua prima poesia.
Era l’immagine della femminilità: affascinante e misteriosa con un portamento fiero che incantò i suoi ritrattisti, tra cui Modigliani. Era una donna eccezionale: un poeta russo sensibile e delicato. Poeta, al maschile, perché non amava essere chiamata poetessa: le sembrava che limitasse il campo del sapere al quale lei aspirava. Con l’arrivo della Grande Guerra e poi della Rivoluzione, nonostante le sollecitazioni di famiglia e amici a lasciare la Russia, Anna non abbandonò mai la sua terra e cominciò ad essere controllata dalla polizia politica e assiste alla propria morte civile: l’impossibilità di pubblicare, di lavorare, una condanna all’isolamento e al silenzio per la sua unica colpa di essere un poeta libero.
Nonostante questo non smise mai di scrivere poesie d’amore che definì: “uno stormo di versi bruciati” perché scritti su fogli bruciati al vento e imparati a memoria dalle amiche. Così, se le fosse successo qualcosa, loro avrebbero potuto salvare quelle parole e avrebbero potuto, un giorno, pubblicarle. La conseguenza fu l’espulsione dall’Unione degli scrittori, poiché non era un “ingranaggio” utile alla macchina sociale russa e venne diffamata, definita «monaca e sgualdrina capace di mischiare la dissolutezza alla preghiera», accusata di aver pubblicato del materiale «estraneo allo spirito del partito».
È da tanta sofferenza che nacque il suo poemetto Requiem: tremenda testimonianza di tanto orrore a cui Anna affidò la sua voce — sottile come un sussurro, e forte come una rivoluzione — in nome di tutte le vittime e in nome dell’umanità intera in cui scorre il peso della storia. Il paradosso della storia di Anna è che non scriveva direttamente di politica e non aveva mai denunciato nessun potente nelle sue opere: scriveva soltanto poesie d’amore. Ma proprio per questo il regime non poteva tollerarle, perché in una società dove il potere non ha limiti, dove il partito ha potere sulla vita e sulla morte, scrivere poesie d’amore significa parlare di un sentimento non controllabile e, soprattutto, del sentimento più libero che esista.
Così la grande rivoluzione di Anna fu che, nonostante tutta la violenza, le persecuzioni, la sofferenza e la distruzione intorno a sé seppe rendersi libera rispondendo a tutto l’orrore con parole d’amore, con parole di libertà. Ed è quando si capisce qual è stato il prezzo da pagare per pronunciare parole libere che si comprende il valore da dare alle parole. Perché «[…] è insostenibile per l’anima il silenzio dell’amore».